Passaggio generazionale, il presidente della Clabo: «Una lezione di vita: prima lavorare fuori, poi entrare in azienda»

Pierluigi Bocchini
Pierluigi Bocchini
di Martina Marinangeli
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Venerdì 20 Agosto 2021, 04:05 - Ultimo aggiornamento: 17:20

ANCONA - Pierluigi Bocchini, patron della Clabo, la sua storia rappresenta il perfetto esempio di ricambio generazionale, con il passaggio di testimone tra suo padre e lei alla guida di un’azienda che si è dimostrata solida nel tempo.
«E tra non molto, toccherà a me lasciare le redini alla nuova generazione. Ironia a parte, sì, ho raccolto il testimone da mio padre, che a sua volta lo aveva raccolto da mio nonno».


Quali sono le difficoltà che incontra un’azienda nel momento di passaggio tra una generazione e l’altra?
«Innanzitutto, il fatto che il mestiere di imprenditore non si insegna, ma va imparato sul campo.

Mio padre mi ha sempre consigliato di fare in modo che non fosse l’azienda di famiglia la prima esperienza lavorativa, e così ho fatto. Poi sono rientrato. È stata una lezione importante perché vedere contesti diversi e relazionarsi con gli altri non da proprietario, ma da collega, è fondamentale per capire le dinamiche».


Regola numero uno: farsi le ossa senza rete di protezione. Cos’altro serve affinché il passaggio funzioni?
«La regola base è, intanto, capire cosa vuole fare il figlio. Se in una generazione che deve prendere in mano l’azienda di famiglia, nessuno se la sente, o nessuno ha le capacità per poterlo fare, è bene che il passaggio non avvenga affatto. Poi si deve cercare di valutare quali siano le attitudini delle nuove generazioni. All’interno dell’azienda, ci sono i manager, che sono gli esecutori, gli amministratori, chiamati ad avere compiti di strategia, e gli azionisti, ruolo tradizionale della famiglia. Per fare il manager o l’amministratore servono le attitudini, altrimenti si svolge il ruolo di azionista e si prendono i dividendi a fine anno se ci sono, senza occuparsi di altro».


Non deve essere facile valutare i propri figli con questi parametri.
«Gli imprenditori spesso non hanno avuto il coraggio di affrontare questo tema, non hanno cercato di capire quale figlio dovesse fare l’azionista, quale il manager e quale l’amministratore. È una scelta terribile, che prima ho subito ed in futuro dovrò fare. Per un imprenditore, è la decisione più difficile e dolorosa. Si valutano i figli non più in base ai principi che dominano in una famiglia, come sussidiarietà e solidarietà, ma in una logica di competitività e sulla base delle effettive capacità».


A suo avviso, nelle Marche il passaggio generazionale all’interno delle aziende sta funzionando? 
«Non solo nelle Marche, ma in generale in Italia, molti imprenditori hanno fatto scelte di natura diversa, come cedere la proprietà. Significa affrontare in modo differente il tema del ricambio generazionale, preferendo lasciare ai figli un patrimonio piuttosto che un’azienda. Inoltre, mentre in Francia o Germania, la dimensione media delle imprese è cresciuta molto e diverse famiglie sono riuscite a mantenere il controllo magari quotandosi in borsa o managerializzando l’azienda, in Italia questo nanismo che dobbiamo purtroppo registrare rende ancora più difficile il ricambio».


Diverse grandi aziende marchigiane sembrano ruotare attorno alla figura del fondatore, tanto che al momento del passaggio, qualcosa va in tilt. Anche questo è un problema non da poco.
«Il grosso dell’imprenditoria italiana è nata nel Dopoguerra, quindi ora quelle figure iniziano ad avere tra i 70 e gli 80 anni. I nodi stanno venendo al pettine. Se le nostre aziende fossero cresciute di più a livello di dimensioni, forse sarebbe stato più facile avere strutture manageriali e patrimoniali tali da consentire un maggior coinvolgimento delle generazioni successive, senza che questo influisse più di tanto sulla gestione».


Troppi uomini soli al comando?
«Quella dell’imprenditore è una figura strana, che contiene in sé tante caratteristiche molto diverse: se in una famiglia ne è uscito uno, statisticamente è difficile che ce ne sia un altro. Per questo è fondamentale che le aziende si managerializzino, slegandosi dall’imprenditore fondatore. In un contesto del genere, è anche più facile per i figli inserirsi. Se invece tutta l’impresa poggia sulle spalle di una sola figura, è complicato sostituirla».

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