Mario Caroli (primario a Jesi): «La disparità di trattamento porterà alla fuga verso il privato»

Mario Caroli (primario a Jesi): «Questa disparità di trattamento porterà alla fuga verso il privato»
Mario Caroli (primario a Jesi): «Questa disparità di trattamento porterà alla fuga verso il privato»
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Martedì 28 Marzo 2023, 05:45 - Ultimo aggiornamento: 29 Marzo, 07:13

Mario Caroli, direttore di Medicina e Chirurgia d’Urgenza al Carlo Urbani di Jesi: lavora con 7 medici strutturati mentre la pianta organica ne prevederebbe almeno 14, gap coperto da medici delle cooperative. Perché i concorsi pubblici per medici di pronto soccorso vanno quasi deserti?

«Se i bandi vanno deserti è perché ci sono pochissimi medici che hanno il requisito della specialità in medicina d‘urgenza, specializzazione lunga cinque anni, nata soltanto nel 2009 con inizialmente pochissimi posti disponibili. Poi, una volta specializzati, non è garantito come nelle altre specialistiche che decideranno di continuare per sempre a lavorare come medici d’urgenza. Molti si arrendono e scelgono il trasferimento in altri reparti». 

Come si lavora nel suo Pronto Soccorso?

«Nelle stesse identiche situazioni degli altri pronto soccorso marchigiani ed italiani.

Si lavora in condizioni molto difficili per le carenze di organico, per i turni massacranti, senza un riconoscimento retributivo che compensi perlomeno i tanti sacrifici che il personale deve sostenere. Non ci sono indennità specifiche nemmeno per compensare il fatto che non esiste uno sbocco per un’attività libero professionale, per non parlare del rischio più alto di contenziosi medico legali e delle aggressioni verbali e fisiche».

Andiamo per ordine. I turni?

«Un medico urgentista deve coprire le notti, il sabato, la domenica, le feste. Il suo calendario non è uguale a quello di un medico in un ambulatorio. Ha una vita difficile da conciliare con la famiglia, per ricavare spazio per il proprio tempo libero e il tutto si è accentuato dopo la pandemia».

Cos’è cambiato?

«L’utente ha delle aspettative che non possono trovare delle risposte all’interno del pronto soccorso. Quando non si trovano risposte dal territorio, si chiama il 118 che nella stragrande maggioranza dei casi ospedalizza il paziente anche per problematiche di tipo sociale».

Un insieme di condizioni che scoraggia il giovane medico a diventare urgentista?

«Purtroppo sì. Prendiamo ad esempio quelli contrattualizzati con il contratto Covid. Erano entusiasti dell’esperienza perché per loro è stata una grande palestra formativa dove, circondati da medici strutturati, hanno acquisito tantissima esperienza. Ma per entrare nel reparto in modo strutturato si devono specializzare. Oggi ci sono più borse di studio messe a disposizione anche con finanziamenti regionali ma non sono sufficienti a coprire tutte le esigenze. Dovremmo però essere in grado di fidelizzare la loro passione per questo lavoro prevedendo delle indennità e vale anche per gli infermieri e gli Oss del team».

La carenza nei pronto soccorso è compensata dai medici delle cooperative.

«Si, nel mio reparto attualmente circa la metà dei turni è coperto dal personale che lavora con le cooperative private».

E come procede?

«Lavoriamo per fornire tutti insieme un servizio efficace per la popolazione, ma non è facile per il personale medico accettare una disparità nel trattamento economico fra colleghi che svolgono lo stesso turno di lavoro. L’effetto potrebbe essere disgregativo».

Esiste un rischio che parte della sua squadra vada a lavorare per la sanità privata?

«Non è solo un’ipotesi, potrebbe essere una realtà. Le statistiche dicono che ogni giorno 7 urgentisti in Italia lasciano la sanità pubblica per lavorare con i privati. Spesso alcuni del mio team mi prospettano questa ipotesi».

E lei che fa?

«Li ascolto, capisco il loro disappunto. Sono consapevole di non poterli trattenere con la forza, ma sono convinto del valore della sanità pubblica e lotterò per mantenere solido il gruppo».

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