L’oncologa Berardi: «Così il siero anti Covid diventa un'arma formidabile contro i tumori della pelle. Prospettive anche per prostata e polmoni»

L'oncologa Rossana Berardi
L'oncologa Rossana Berardi
di Martina Marinangeli
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Mercoledì 15 Settembre 2021, 02:00 - Ultimo aggiornamento: 16 Settembre, 08:33

ANCONA - Professoressa Rossana Berardi, direttrice della Clinica Oncologica agli Ospedali Riuniti di Ancona e Ordinario di Oncologia all’Università Politecnica delle Marche, i vaccini a mRna utilizzati contro il Covid hanno suscitato preoccupazione, venendo etichettati come sperimentali: è un timore fondato? 
«Questa tipologia di vaccino viene da almeno 20 anni di sperimentazioni anche nel settore oncologico. La tecnologia a mRna messaggero non è nata con la pandemia: era usata prima del Covid e continuerà ad essere usata anche dopo».

 
Per quali patologie tumorali potrebbe essere utilizzata? 
«In particolare, è stato appena pubblicato una sperimentazione sul melanoma nelle cavie, con una tipologia di vaccini che ha un’estrema somiglianza con quelli anti-Covid ed è in corso uno studio nei pazienti oncologici affetti da vari tipi di tumore. Ma in generale, i vaccini in oncologia sono stati sperimentati in diversi settori, anche a livello polmonare e prostatico».
A che punto siamo con la sperimentazione sul melanoma? 
«Il melanoma è una patologia della cute e, stando alla sperimentazione un vaccino mRna potrebbe interferire con la sua crescita. Per ora è stato testato sulle cavie, ma ha dato origine alla possibile sperimentazione nell’uomo. L’azienda BioNTech, che ha sviluppato il vaccino della Pfizer, ha creato questo mix di quattro Rna messaggeri, testandone la valenza antitumorale in uno studio pubblicato negli scorsi giorni. In sostanza, i quattro mRna veicolano diverse istruzioni per costruire molecole volte a ricostituire le difese immunitarie del paziente contro il tumore».
Dalla sperimentazione sulle cavie sono emersi risultati positivi? 
«Molto positivi. Il vaccino è stato iniettato, direttamente nel tumore, su cavie affette da melanoma, ed i risultati sono davvero incoraggianti: 17 su 20 hanno mostrato una regressione della malattia. Lo stesso mix è stato somministrato poi ad ulteriori cavie, anche in questo caso con esito positivo. Quindi ora abbiamo trial clinici in corso per valutare la sicurezza di questo approccio. Di qui, lo studio potrà proseguire nell’uomo ed i primi 200 pazienti con neoplasie metastatiche, quindi in stadio avanzato, potrebbero essere trattati con questa metodologia».
I vaccini anti-Covid potrebbero dunque essere una chiave per la cura dei tumori? 
«C’è questa possibilità. Al momento siamo in fase di sperimentazione, ma potrebbero esserlo».
Il fatto che questa tipologia di vaccini sia stata usata contro il Covid, ha accelerato la sperimentazione sulle neoplasie? 
«In ambito oncologico, la ricerca è sempre andata avanti con particolare velocità perché si tratta di patologie ad alta incidenza epidemiologica ed impatto socio-sanitario. Chiaro che, però, nel momento in cui si producono molecole o si sviluppano tipologie di ricerca, le aziende, anche saggiamente, cercano di ottimizzare le informazioni per mettere a punto nuove possibili terapie in diversi settori. In questo caso, si parla mettere a punto la metodica del vaccino mRna anche con la finalità antitumorale».
Come recita il proverbio: fare di necessità virtù, insomma.
«Il vaccino mRna, nell’ambito della patologia Covid, dà gli strumenti per produrre una proteina spike che possa essere poi riconosciuta per garantire protezione anticorpale. Allo stesso modo, il cancro produce sostanze, come i neoantigeni e noi possiamo usare la stessa metodologia per codificare, attraverso l’Rna messaggero, queste sostanze. Così potremmo migliorare la risposta antitumorale. Il meccanismo può essere riprodotto anche in altre patologie».
Oltre al melanoma, quindi, la tecnologia dell’mRna potrebbe essere impiegata anche nella lotta ad altri tumori? 
«Assolutamente sì. Chiaro, siamo ancora alle prime fasi e lontani dal trarre conclusioni, ma il fatto che siano attive sperimentazioni nell’uomo, ci avvicina a quella che potrebbe essere un’applicazione nella pratica clinica».

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