Gnudi, primario del pronto soccorso di Marche Nord: «Ormai è una guerra di sfinimento. Sì, adesso la stanchezza si sente»

Umberto Gnudi, bolognese, 54 anni, dallo scorso anno è il primario del pronto soccorso di Marche Nord
Umberto Gnudi, bolognese, 54 anni, dallo scorso anno è il primario del pronto soccorso di Marche Nord
di Andrea Taffi
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Venerdì 19 Febbraio 2021, 02:20

«Come va? Le racconto questo. Stanotte ho sognato che andavo a bottega da un piastrellista per imparare il mestiere». 
Magari nel suo subconscio c’è qualche trauma legato ai pavimenti.
«O forse il mio cervello sta cercando un lavoro manuale che mi stacchi il cervello».

Umberto Gnudi, primario del pronto soccorso di Marche Nord ha sempre un lato originale per presentare le cose. L’ironia, l’autoironia in questo caso, non gli fa mai difetto.


Ecco partiamo proprio dalla pressione sugli ospedali. La manager del servizio Salute Di Furia dice che la pressione sugli ospedali è preoccupante ma il sistema regge.
«Il sistema sì, gli operatori sono in difficoltà».

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Gestire la pressione, una parola.
«Noi di sicuro stiamo pagando in maniera evidente. Perché non ci si è fermati un attimo».


Era più semplice un anno fa?
«In un certo senso, sì. Perché si era congelato tutto anche se non era una situazione che poteva durare. Giusto e sacrosanto che si sia tornati all’attività ordinaria». 


Però? 
«Però qui è come quando fai il cambio degli armadi e devi mettere estate e inverno nello stesso armadio». 

Traduciamo.
«Gli spazi dell’ospedale fisicamente sono quelli di un anno fa.

I posti letto a causa dei distanziamenti sono nettamente diminuiti e non sono, giustamente, tutti dedicati al Covid». 


Il lato positivo di questa storia.
«Abbiamo organizzazione, strumenti, conoscenza della struttura della patologia, percorsi e armi terapeutiche, armi terapeutica. E questo è un grande bene».


C’è un problema di numeri.
«Il paziente passa più tempo in pronto soccorso prima di avere un letto. Un disagio per il paziente, un carico più alto per gli operatori. Banalmente: se devo dare una terapia domiciliare, i pasti, fare igiene nel reparto è una routine, da noi è più problematico».


E questo pesa.
«Nei volti dei colleghi leggo una stanchezza profonda. Adesso non c’è più l’idea: affrontiamo il nemico e lo battiamo. Adesso è una guerra di sfinimento, direi che siamo un pezzo in là».


Se le dico variante inglese cosa vede?
«A pelle: non me ne frega niente perché sono i numeri che parlano. Se mi dici che la variante è più pericolosa perché più infettiva e questo ricade sul pronto soccorso con più gente allora dico: oddio, oddio. Ma se la troviamo con il tampone, risponde alle terapie e non è peggiore del quadro clinico del virus base dico che qui non ci sono stati picchi, solo un andamento altalenante. Gestibile». 


Il problema sono gli altri pazienti.
«Perché i pazienti non Covid continuano ad esistere. Vuole sapere una cosa?».


Prego.
«Il numero complessivo di pazienti trattati dal pronto soccorso è diminuito. Ma la diminuzione è quasi totalmente sui codici bianchi e verdi mentre quelli gialli e rossi continuano a entrare. Quindi la riduzione del carico reale non c’è. E con il collo a valle per i posti letto si ripropone il problema».


Insomma, un nemico liquido: l’anno scorso per le rianimazioni, oggi per i reparti ordinari e la pressione.
«Bisognerebbe poter fare come le truppe al fronte: mandi via 15 giorni un gruppo e arrivano gli altri. Manca il tempo di compensazione con i colleghi: la pizza, il congresso, lo spazio che ti consente di smussare gli spigoli. Se tutti gli spigoli vanno a cozzare il quotidiano diventa meno sopportabile».


Però il vaccino almeno vi protegge.
«Ecco io sono molto fiducioso per quello e per gli anticorpi monoclonali. Vede, il Covid non è solo una malattia individuale ma impatta su tutti: se chiudo l’azienda è un problema di una comunità. L’unico modo per far tornare il Covid una malattia normale e vaccinare più gente possibile. Il contagio del personale sanitario si è dimezzato: bei numeri. Funziona anche nella vita reale e non solo nei trial (le sperimentazioni, ndr)».


È stato fatto tutto sulle restrizioni? Domanda per il cittadino Gnudi, non per il primario.
«Mi sono interrogato molto su questo, io vedo solo una fetta della torta. Sono privilegiato, prendo lo stipendio, non ho il peso dell’insicurezza economica che è la seconda bestia peggiore di questa fase dopo chi sta male», 

Quindi?
«Sarebbe facile dire chiudi tutto. Credo che abbia ragione il professor Silvestri con la metafora dei due scogli. Da una parte il disastro sanitario e dall’altra quello economico. Con una situazione fluida bisogna imparare a navigare in mezzo». 


Quindi rifarebbe tutto?
«Una scelta che mi ha dato molto fastidio è stata la chiusura delle discoteche il 16 agosto. La fotografia di un’idea: un colpo alla botte e uno al cerchio. Poi voi giornalisti, con tutto il rispetto, certe volte gestite i dati in modo mal interpretabile. C’è la tendenza all’allarmismo anche quando l’allarme non c’è». 


C’è una morale in questa storia?
«Credo che qui molti di noi abbiano cancellato buona parte delle loro vite. Come tutti, per carità: saprà che noi medici siamo pochissimi e non troviamo nessuno che venga qui. Il medico di una Usca o chi fa vaccinazioni, attività rispettabili e rischiose, guadagna più me». 


Speriamo nel vaccino.
«È l’unica strada che riporti il virus nel suo ambito: un problema individuale e non di tutto il mondo».

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