Marche commissariate, De Rita: «La palude ci sta ma serve una piattaforma che condivida visioni. Da lì verranno i leader»

Il sociologo Giuseppe De Rita
Il sociologo Giuseppe De Rita
di Andrea Taffi
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Domenica 30 Maggio 2021, 03:35 - Ultimo aggiornamento: 5 Giugno, 22:31

Professor Giuseppe De Rita, un anno fa in un webinar della Camera di commercio delle Marche lei disse - a proposito della nostra regione - che l’incertezza doveva “trasformarsi in coscienza e soluzione”. Qui, visti i commissari che fioccano dalla politica all’economia, l’incertezza sembra abbia acuito il nanismo della classe dirigente e i vuoti.
«Dal punto di vista del lungo periodo la cosa mi preoccupa poco. I grandi sistemi, e la Marche lo sono state, hanno tempi di flusso e di riflusso. Le Marche non potevano essere per sempre quelle di Vittorio Merloni».

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Lei lo conosceva bene.
«Non era possibile che tutto continuasse come allora.

Per questo oggi c’è un problema di coscienza. Un momento di raccoglimento dove si cerca di capire dove stanno nuovi spazi. È la collettività nel suo insieme che deve fare questo esame non la classe dirigente. La classe dirigente uscirà quando il sistema Marche avrà preso coscienza che l’onda ora è bassa. Dimenticate i driver, gli imprenditori che trainano».


Qual è il punto di leva?
«Il sistema deve ricominciare a pensare, a parlare, forse anche ad aver paura di una regressione. Conta che ci sia una spinta collettiva alla riflessione. Avendo studiato dai gesuiti, ho imparato che ci sono tempi in cui si possono fare solo esami di coscienza, non le corse in avanti». 


Pensiamo al percorso di Fuà: Ancona, Roma, Ivrea, Ginevra, poi il centro studi dell’Eni e alla fine Ancona. Abbiamo bisogno di un nuovo percorso iniziatico? Uscire per riconquistare una visione?
«Ho voluto molto bene a Fuà ma Fuà ha riscoperto le Marche, il localismo, il territorio. Per carità, non nego che all’estero si impari qualcosa. Ma per essere leader oggi bisogna stare nel territorio non andare altrove. Non critico Fuà, sia chiaro. Se non c’è presenza sul territorio puoi diventare il Marchionne di turno ma non sarai un vero leader del territorio».


Un anno fa, sempre collegato alla Camera di commercio delle Marche, lei spiegò che la via di uscita dopo “coscienza e soluzione” era creare piattaforme. Ci aiuta a capire? Qui funzionano solo i campanili e ripicche. 
«Quando in una società i soggetti vanno per proprio conto, la realtà è di tipo molecolare e serve un aggancio sistemico. Oggi la piattaforma è un sistema di servizi. Non è fatta di leadership, quella arriva dopo. La crisi delle Camere di commercio è stata una crisi di soggetti collettivi che hanno fatto da piattaforma e poi non lo sono state più. L’Istao è stata una piattaforma e ora non lo è più».


Provi a fare altri esempi.
«Se non fai la piattaforma non hai Amazon che unisce migliaia di produttori e migliaia di consumatori. I grillini hanno usato la piattaforma Rousseau ma quella non è come la intendo io. Devi avere una capacità e una sede di convergenza senno gli interessi dei soggetti sbandano. E se i singoli soggetti sono mosci, il sistema è moscio».


Andiamo avanti.
«In qualche caso la piattaforma coincide con la realtà territoriale: Milano fino a pochi mesi fa è stata piattaforma, si è visto l’Expo. Oggi una piattaforma che funziona è quella emiliano-romagnola: una realtà molto complessa con industria, servizi, agricoltura e iniziative di ogni tipo. Però è nata senza volontà, difficile copiarla». 


Una piattaforma voluta?
«La Torino degli Anni 60, la Milano dei nostri Anni 10, sono state piattaforme se non proprio programmate, di certo volute. Se penso a Roma e al Lazio invece mi viene da piangere. Lì non c’è piattaforma».


Detto da lei che è sempre stato un sostenitore del soggettivismo, fa impressione. 
«A un certo punto sono stato anche criticato perché lo ero troppo. Ci vuole una stagione di soggetti collettivi. Piattaforma è una parola intermedia ce ne possono essere altre».


In Abruzzo dopo il sisma del 2009 si creò il Patto per lo sviluppo: politica, categorie e sindacati. Ma non è uscito granché.
«Da presidente del Cnel feci i primi 20 patti territoriali per il Mezzogiorno: mi sembrava un’esperienza buona perché c’era di tutto dentro. A un certo punto però i patti sono diventati una specie di banco del supermercato: c’era l’elenco di progetti e l’intervento diretto dello Stato che finanziava i singoli bisogni. Ma così si finisce alla politica dei bonus tanto per restare ai nostri giorni».


Un soggetto collettivo nelle Marche: si fa fatica a immaginarlo in questo momento. Per questo la fondazione Merloni ha voluto creare l’Hub fatto di università e fondazioni di tre regioni? È un soggetto collettivo quello?
«È una sperimentazione, un tentativo di cominciare. Giusto farlo nella curva bassa di un sistema. Spacca ha fatto bene».


Spacca ha anche detto che la sua grande sconfitta da governatore è stato il tentativo fallito di unificare le tante Marche in una regione.
«Chi cerca la convergenza rischia. La pluralità è stata la forza delle Marche ma se si spezzetta troppo e arriva alla realtà atomica non ce la fai insieme a tenere le cose».


Quindi c’è un guscio da rompere, un passaggio da compiere: superare la atomicità.
«È un problema di psicologia collettiva. Una palude intellettuale da rifuggire: Fuà, per esempio, ha rotto il guscio della cultura economica tradizionale. Il modo in cui ha condotto i primi anni dell’Università era una linea nuova per la logica universitaria del tempo». 


Ragionare in modo completamente diverso. 
«Hirschmann nel 1956 scrisse un libro dal titolo: Lo sviluppo è squilibrio continuato. Bisogna fuggire dal fare politica pensando a riequilibrare tra Nord e Sud, Est e Ovest, città e campagna, giovani e vecchi. Se lo sviluppo è vitale crea continuo squilibrio, non può che creare diseguaglianze. Invece, come spesso ha fatto la sinistra italiana, se erigi a bandiera la lotta alle diseguaglianze, erigi a bandiera la lotta allo sviluppo. E così sei prigioniero».

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