Quell’Ave Maria che smascherò i covi nel Maceratese di Graziano Mesina, il re dei sequestri di nuovo in fuga

Graziano Mesina, mentre esce dal carcere di Voghera dopo aver ottenuto la grazia dal presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi. Ma dopo l'ennesima condanna doveva tornare in carcere e si è dato di nuovo alla fuga
Graziano Mesina, mentre esce dal carcere di Voghera dopo aver ottenuto la grazia dal presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi. Ma dopo l'ennesima condanna doveva tornare in carcere e si è dato di nuovo alla fuga
di Leonardo Massaccesi
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Lunedì 6 Luglio 2020, 03:45

CINGOLI - L’ennesima fuga dell’ex primula rossa del banditismo sardo Graziano Mesina, 87 anni (compiuti lo scorso 4 aprile) ha riportato alla ribalta le sue gesta criminali tra cui omicidi, sequestri di persone, sparatorie, traffico di droga e anche le zone d’ombra tra apparati dello Stato nelle quali sembrava sapesse muoversi bene. Giovedì quando i carabinieri del Nucleo Operativo di Nuoro si sono presentati alla sua casa di Orgosolo per arrestarlo e riportarlo in carcere, Mesina (già scarcerato un’anno fa per decorrenza dei termini di custodia cautelare) era sparito. Volatizzato. Sono 23 le fughe tentate, di cui 11 andate a segno. 

La pagina delle Marche
E tra le pagine nere della storia del più famoso bandito sardo del dopoguerra, una riguarda le Marche, quella del sequestro dell’industriale calzaturiero Mario Botticelli, avvenuto il 26 gennaio 1977 in provincia di Ascoli. E al sequestro partecipò Graziano Mesina. L’industriale calzaturiero trascorse diversi giorni della sua prigionia sulle montagne di Cingoli. Mesina dopo l’evasione dal carcere di Lecce nel 1976, durante la sua latitanza fece “tappa” a Cingoli e scelse come rifugio una capanna di un pastore nelle vicinanze di San Vittore di Cingoli. 

 
La parrucca nel casolare
I carabinieri (seguendo le cronache del tempo) trovarono all’interno del capanno una parrucca che avrebbe indossato proprio Graziano Mesina per non farsi riconoscere. Sulla presenza del bandito sardo nel Cingolano e su quella parrucca si discusse tantissimo e per diversi anni. Fu lo stesso Mario Botticelli (facoltoso industriale di Marina Palmense) una volta liberato, ad individuare la sua prigione soprattutto grazie al suono delle campane di una chiesa che ogni sera suonava l’Ave Maria di Schubert. Non fu facile rintracciare quella chiesa. Gli inquirenti andarono avanti ad esclusione e alla fine l’orientamento cadde su una chiesa situata in una zona tra la località Internone nel cingolano e il confine con San Severino. “Grazianeddu” venne arrestato il 16 marzo 1977 a Caldonazzo, in provincia di Trento, durante una perquisizione in un appartamento. Ma anche le indagini sul sequestro del “re della sambuca”, Marcello Molinari, sequestrato il 17 maggio 1981 a Civitavecchia, condussero gli inquirenti nel Cingolano, una zona che era diventata quasi un “passaggio” obbligato per i sequestratori che potevano contare su diversi basisti del posto. 

I 72 giorni di Molinari
Molinari passò tutti i suoi 72 giorni di prigionia tra i boschi cingolani, legato con una catena ad un’albero. Venne liberato due mesi dopo a mezzanotte del 28 luglio 1981 (i carcerieri si sarebbero sentiti accerchiati delle forze dell’ordine): verso le 5.30 del mattino dopo aver camminato per diversi chilometri, mise piede in località Colcerasa e bussò alla porta di un sarto per cercare aiuto. Per scovare i carcerieri fu importante individuare la zona di prigionia dove venne tenuto nascosto Molinari. E proprio il re della sambuca contribuì all’arresto dei carcerieri (diversi di loro implicati anche nel sequestro di Botticelli) individuando la zona grazie alla musica che proveniva dall’impianto di una chiesa.

Quel suono distinto
Un suono distinto (anche se proveniva da lontano) ed era il suono dell’Ave Maria di Schubert. Tra i due sequestri (quello di Botticelli avvenne nel ‘77, mentre quello di Molinari nell’81) ci furono molte somiglianze. Sia per la zona scelta dai sequestratori che per il modo in cui i carcerieri trattavano i sequestrati. Diventò un modus operandi della banda di Grazianeddu che quarant’anni dopo, ha rinverdito la sua fama di primula rossa 
 

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