ANCONA - In linea di principio sono tutti d’accordo: Servizio Sanitario regionale, sistema delle imprese e sindacati sono pronti a far partire la campagna di vaccinazione dei lavoratori anche all’interno delle aziende. Ma tutto è fermo alle buone intenzioni.
Innanzitutto perché manca la materia prima, cioè i vaccini, e poi perché il protocollo pensato dalla Regione Marche e annunciato da giorni da Acquaroli ha scatenato un cortocircuito, dove le legittime osservazioni delle parti fanno slittare la firma e di conseguenza che le buone intenzioni diventino una buona pratica.
Spazi sì, dosi no
Ieri si è conclusa la mappatura di Confindustria: secondo le prime indiscrezioni sarebbero oltre 6.000 le aziende in tutta Italia pronte a concedere i propri spazi. E le Marche hanno fatto la loro parte: nelle sedi provinciali parlano di «straordinaria disponibilità». Ce ne sarebbe abbastanza per far fronte a un target di 154 mila addetti del solo settore manifatturiero, ai quali potrebbero aggiungersi i 32 mila delle costruzioni. E le buone notizie si fermano qui, perché il resto sono tutti nodi da sciogliere. Il primo riguarda la disponibilità delle dosi: con circa 250 mila consegnate a ieri nelle Marche, la nostra regione è 12esima per dosi consegnate, superata anche da Sardegna e Calabria che hanno un numero di abitanti analogo. Quantità appena sufficienti a garantire, ora che è ripartita la somministrazione degli AstraZeneca, la vaccinazione delle categorie prioritarie così come sono state individuate da ministero della Salute, Commissario straordinario, Iss, Agenas e Aifa.
Il miraggio Sputnik
Imprenditori e sindacati sono d’accordo, senza se e senza ma, nel rispettare l’ordine fissato dal piano nazionale varato l’11 marzo scorso. Ma allora, come se ne esce? Al momento è un vicolo cieco, anche se una opzione potrebbe diventare Sputnik grazie alle ottime relazioni che decine di aziende marchigiane hanno sia con gli imprenditori che con le autorità della Federazione Russa.
Cercansi medici del lavoro
L’altro nodo complicato da sciogliere perché la campagna di vaccinazione possa partire anche all’interno degli spazi aziendali è quello delle responsabilità, perché la disponibilità degli imprenditori si ferma ai metricubi e a un’attività di moral suasion nei confronti degli operai. È un tasto dolente soprattutto per i medici del lavoro, che sarebbero chiamati a somministrare i vaccini e, nella migliore delle ipotesi, a supervisionare il lavoro degli infermieri. Secondo indiscrezioni, da nord a sud della regione, 2 su 3 non sono disponibili ad allargare il confine delle proprie competenze, perché si ritengono professionisti della prevenzione negli ambienti di lavoro, mentre l’intero processo vaccinale deve rimanere in capo all’autorità sanitaria pubblica, e quindi ai medici di famiglia, gli unici deputati a far sì che anche la popolazione lavorativa possa accedere (volontariamente) al vaccino. Daniela Barbaresi, leader della Cgil regionale, lo definisce però un «coinvolgimento fondamentale insieme a quello degli infermieri», in perfetta sintonia con quanto dicono gli imprenditori. Ma anche gli infermieri sono diventati merce rara: ne ha bisogno la sanità pubblica regionale e quelli che già lavorano a contatto con i privati sono appena sufficienti a garantire la somministrazione dei tamponi nelle aziende con la frequenza necessaria.
Si guarda a Roma
Cgil, Cisl e Uil, che su questo tema parlano all’unisono, hanno anche una richiesta supplementare: «È importante che sul come procedere nelle vaccinazioni in azienda ci sia un confronto anche i rappresentanti dei lavoratori in fabbrica», spiega Barbaresi. E così, il protocollo galleggia da oltre una settimana tra i palazzi della Regione Marche e quelli delle associazioni di categoria e delle rappresentanze sindacali: le firme non arrivano e si fa strada un possibile accordo nazionale, che eviti anche il puzzle delle Regioni che si muovono autonomamente e con regole diverse.