Francesco Merloni a tutto campo: «Sul digitale? Eravamo un Paese molto arretrato. Ora ci siamo attrezzati»

Francesco Merloni
Francesco Merloni
5 Minuti di Lettura
Martedì 21 Aprile 2020, 04:05

La condanna degli invisibili. Nella fossa comune dei numeri delle vittime del Coronavirus ci sono nonne e nonni, madri e padri. Ci sono coloro che scrissero la trama del boom economico, che ricostruirono la nazione nel dopoguerra. «Penso che la storia oggi interessi a pochi, sono cambiate le relazioni». Francesco Merloni, la posa della prima pietra della sua fabbrica a Matelica nel ‘53 con quattro operai senza scarpe, non fa la morale, prende nota. «Nell’era del digitale va così». 

LEGGI ANCHE:

Coronavirus, la ricerca: «Può resistere nell'aria fino a 16 ore. Particelle più infettive della Sars»


 

Ingegnere, lo vogliamo ammettere? Questo virus non è democratico. Ha picchiato duro sui più deboli. La strage degli anziani nelle case di cura, che si sono trasformate in bombe a orologeria batteriologiche, è una verità incontrovertibile.
«Non sono d’accordo. La stessa emergenza è anche europea». 

Al dì là dei dati ufficiali, si teme che siano almeno seimila le vittime tra gli ospiti di strutture pubbliche, convenzionate e private. Una vergogna che va punita? 
«Ribadisco, è avvenuto anche in Francia e in Inghilterra. E poi dipende dai singoli casi. A Padova, il mio amico Angelo Ferro, che oggi purtroppo non c’è più, fondò l’Opera Immacolata Concezione, che è sempre stata un modello. Ospita tra le 5 e le 6mila persone: lì non ci sono stati casi. Il suo motto era: non faccio residenze per anziani, faccio fabbriche di relazione» . 

L’esatto contrario di ciò che è accaduto al Pio Albergo Trivulzio di Milano. 
«Dove sono morte 150 persone. Questo sì che è un fatto gravissimo». 

Come giudica un Paese che non è in grado di difendere se stesso, di rispettare e tutelare chi rappresenta la propria memoria?
«Penso che la storia oggi interessi a pochi, sono cambiate le relazioni. Si guarda al presente, poco al futuro, per niente al passato». 

Così ci verrà a mancare l’idea di noi?
«È un rischio serio. Quando nel ‘53 aprii il mio primo stabilimento a Matelica, che allora era molto povera, iniziai con quattro operai. Notai subito che erano senza scarpe e avevano tutti il passaporto e niente carta d’identità. Erano pronti a emigrare».

Si tende a dimenticare.
«Oggi è difficile che un giovane coltivi la memoria, nell’epoca del trionfo del digitale. La storia siamo noi? Sempre di meno, semmai le pagine di un libro. S’allontana». 

Picchia ancora duro sui più deboli questa crisi sanitaria. Lo stop delle aziende peserà di più sui precari, sui giovani e sui part time. Ha lo stesso timore?
«Assolutamente sì. Penso ai tanti lavoratori agricoli del meridione, di attività in nero in gran parte scomparse. Penso alla cassa integrazione estesa ad aziende con un solo operaio e a coloro che non riusciranno a rimettersi in circolo». 

Per il neo presidente di Confindustria, Carlo Bonomi, il governo centrale è in ritardo sulla ripartenza dell’Italia che produce. E d’accordo? 
«Mah. Credo che si debba ricominciare là dov’è possibile farlo. È stata diffusa la notizia che le Marche usciranno dall’emergenza per ultime, insieme alla Lombardia. Mi sembra poco credibile questa sorte parallela: qui da noi non c’è la stessa congestione di fabbriche. Ricordo bene la Val Seriana, quando ero ministro: gli stabilimenti erano già uno sull’altro». 

Cosa vuol dimostrare? 
«Che il contagio non avviene nelle fabbriche, dove peraltro ora si applicano rigidi protocolli di sicurezza. Il virus si propaga sui treni, sui pullman, nelle metropolitane, dove gli operai s’ammassano per raggiungere il posto di lavoro. Un problema che da noi non esiste». 

Gli scienziati indicano quella che per loro è l’unica rotta possibile: riaperture scaglionate, a partire dalle regioni più attrezzate. Le Marche, secondo lei, lo sono? 
«Direi proprio di sì». 

In sintesi, è in linea con il suo collega, l’imprenditore Enrico Loccioni, che lancia una provocazione: invitiamo le aziende del nord a spostarsi qua, dove ci sono i capannoni vuoti e la qualità della vita è migliore. 
«Era il 21 febbraio scorso quando ad Ancona, alla facoltà di Economia, organizzammo un confronto Marche-Emilia Romagna. La tesi sostenuta durante quell’incontro fu che il secondo sviluppo economico s’era fermato prima del Rubicone: sopra quella linea di demarcazione s’affollano le fabbriche. Ed è un caso che il Covid abbia infierito proprio sulle aree a più alto tasso d’inquinamento?». 

Che fa, ripensa ai confini della geografia industriale? 
«Sono perfettamente d’accordo con Loccioni. Venite qua, c’è posto». 

E come saremo, secondo lei, tra un mese?
«Come in Cina, guanti e mascherine saranno la normalità.

La vera sfida è imparare a convivere con il virus. Comunque, un passo avanti l’abbiamo fatto: sul digitale eravamo un paese molto arretrato. Ora guardiamoci, ci siamo attrezzati. Tutti».

© RIPRODUZIONE RISERVATA