Lo chef stellato, le paure, i vaccini. Uliassi: «Apro il 5 giugno per lavorare in sicurezza. Sotto i 24 gradi non si mangia all’aperto»

Mauro Uliassi, chef tre stelle Michelin
Mauro Uliassi, chef tre stelle Michelin
di Maria Cristina Benedetti
5 Minuti di Lettura
Mercoledì 21 Aprile 2021, 03:20 - Ultimo aggiornamento: 15:48

ANCONA - Un post per tre stelle Michelin. «Ok, facciamo che questa è definitiva, lo sapete che non dipende da noi». Mauro Uliassi su Instagram declina l’informazione in versi: «Siamo costretti a posticipare ancora di qualche giorno la nuova stagione, ma ci rincuoriamo con questo adagio, antico come il mare: l’attesa aumenta il desiderio». 


Vale un “a presto”?
«Di qui passa il mondo. Per noi non ci sono le condizioni per ripartire dopo il 26 aprile e solo all’aperto». 

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Un’onda lunga?
«Non siamo come i ristoranti pop, una pizzeria o una paninoteca, dove passi, decidi di fermarti e puoi cambiare programma anche all’ultimo minuto. No. Noi lavoriamo su una programmazione rigida. C’è chi affronta un viaggio per venire a cena qui, fissa un tavolo mesi prima, si sposta. Non posso accettare prenotazioni se non sono certo di offrire ospitalità». 


E questa attesa che aumenta il desiderio quanto durerà?
«Fino al 5 giugno. Con i vaccini saremo molto avanti e poi sarà caldo, il che riduce la capacità del virus di propagarsi e rende possibile stare fuori».


Che non è poi una garanzia al cento per cento.
«Neppure per noi che abbiamo un locale tutto circondato di finestre, che, se spalancate, creano un ambiente simile all’esterno. Sotto i 24 gradi non si mangia. I clienti se la prendono comoda, restano seduti dalle due ore e mezzo alle tre ore. Se non c’è la temperatura adatta è impossibile».


Indignato? 
«Assolutamente no. Siamo un’azienda solida, un piccolo microcosmo. Sono cosciente che ci sono realtà in grande difficoltà. Come chi, di recente, aveva fatto investimenti, o chi ha il mutuo da pagare. Comprendo bene chi è esasperato. Non è il mio caso». 


Ma può lasciarsi andare a un “che confusione”. 
«Certo, le informazioni non sono conformi. Da una parte c’è il governo che parla di riaprire dopo il 26 aprile, dall’altra ci sono personaggi del calibro di Massimo Galli, infettivologo del Sacco di Milano, e di Andrea Crisanti, direttore del dipartimento di medicina molecolare dell’Università di Padova, che sono d’accordo nell’affermare che si deve mettere in conto il rischio di far saltare l’estate».


Concorda? 
«Il timore c’è. La gente è stanca, ha una gran voglia di uscire. È molto difficile gestire questa complessità, ma tutelare la salute dei clienti e di chi lavora è l’elemento essenziale».


Da dove riparte? 
«Per riprendere il largo ci vogliono 40 giorni.

Siamo come una barca che si prepara per fare una regata. Si tinteggiano i legni. Un gruppo si dedica alla manutenzione, un altro alle strategie».


Ha già in testa il menu della ripartenza? 
«Lo stiamo organizzando. Siamo un lab, studiamo e ricerchiamo sempre. Speriamo che non vada come l’ultima volta che si parlò di rimettersi in moto».


Cosa accadde? 
«Dopo 7-8 giorni che ci eravamo ritrovati per confrontarci, uno dei ragazzi del gruppo aveva la febbre. Eravamo fuori di testa. Avevamo condiviso gli stessi spazi e, per onorare la nostra collaborazione ritrovata, avevamo mangiato qualcosa assieme. Fu il panico». 


Le conseguenze?
«Si contagiarono in due, un 28enne e un 35enne: nonostante fossero giovani, sono stati molto male. Scattò la quarantena. Ci dobbiamo pensare bene. Siamo felicissimi di riaprire, ma ho anche timore. Devo avere la certezza di poter lavorare in sicurezza».


C’è un’unica via. 
«Esatto. I vaccini. Quando seppi che andando in Slovenia si potevano fare, pensai di organizzare un pullman con i miei dipendenti. Niente: la notizia che circolava non rispecchiava la realtà. Comunque io sarei disposto a pagare per immunizzare i miei collaboratori. Lo stop and go è devastante». 


Come giudica le scelte del governo? 
«Non sono in grado di discutere i provvedimenti delle istituzioni, non ne ho le competenze, ma penso che decisioni così importanti, che hanno conseguenze reali sulla vita di tutti, vadano spiegate bene, in modo da dare a ognuno gli strumenti necessari per capire perché vengono prese. I ristoranti di città non sempre godono di spazi all’aperto. E poi, ripeto, non sempre la temperatura lo consente: ieri sera, qui a Senigallia erano sette gradi. Come le ho detto: per mangiare all’aperto ce ne vogliono 24».


Quanto, secondo lei, incide la ristorazione sull’aumento dei contagi? 
«Non sono un tecnico. Ma so che viene destinato un metro quadrato a persona: quindi 100 metri quadrati, 100 persone. Semplice».

 
E poi non tutti hanno impianti che garantiscono il ricircolo dell’aria, vero? 
«E chi va a mangiare sta dalle due alle tre ore in un luogo chiuso e senza mascherina. Per ovvie ragioni. E ora c’è pure un’aggravante».


Quale? 
«La variante inglese, che si diffonde più velocemente e attraverso il contatto». 


Allora torniamo a bomba: c’è un’unica via. 
«Se avessimo già vaccinato il 60% della popolazione sarebbe tutta un’altra storia». 


Paura? 
«La mia massima preoccupazione, assieme al benessere della mia famiglia e del mio gruppo di lavoro, è la tenuta sociale del Paese».


Scricchiola?
«Sono tanti coloro che saranno costretti a chiudere. Le imprese a conduzione familiare riescono, con molta fatica, a sostenere il peso. I grandi gruppi, penso ai ristoranti degli alberghi, no ».


Come immagina il futuro prossimo? 
«Tutto ciò che inizia deve avere una fine. Deve. E credo che presto ci sarà un grande rimbalzo economico». 


Nell’attesa, si rincuora con un adagio antico come il mare?
«Stiamo verniciando i legni. Lo spessore del tempo si mescola alla brillantezza ritrovata del bianco. Mi passi la metafora».

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