«Ogni singolo ammalato qui è un nostro parente. Mai vissuta un'esperienza così»

«Ogni singolo ammalato qui è un nostro parente. Mai vissuta un'esperienza così»
«Ogni singolo ammalato qui è un nostro parente. Mai vissuta un'esperienza così»
4 Minuti di Lettura
Giovedì 19 Marzo 2020, 11:40

ANCONA - «I pazienti percepiscono ciò che diciamo, anche se sono intubati. Per questo chiacchieriamo con loro, facciamo delle domande: loro ci sentono, non possono risponderci, ma magari lo faranno un domani. Il sogno è che un giorno si sveglino tutti e tornino a parlare, anche solo per dirci: quanto ci avete rotto le scatole, potevate starvene zitte!». Diciassette malati di Coronavirus sono passati nella clinica di Rianimazione di Torrette, diretta dal dottor Abele Donati, trasformata in Covid Hospital. Uno “solo” è deceduto. «Ma ogni persona che non riusciamo a salvare per noi è una tragedia» racconta una delle infermiere del reparto che, come i colleghi e le colleghe, dall’inizio dell’emergenza non conosce sosta. La chiameremo Maria.

LEGGI ANCHE:

Coronavirus, l'Italia non ripartirà il 3 aprile. Conte: «Inevitabile allungare il blocco totale»


Quando si scatena una pandemia e la black list dei decessi, purtroppo, si allunga quotidianamente, il rischio è la disumanizzazione dell’uomo: il malato diventa un numero. «E invece no, il paziente è nostro, è come se fosse un familiare: questa è la visione dell’infermiere della Rianimazione, anche se in questo caso non sappiamo nulla di lui, né conosciamo i parenti. Non incrociamo i loro sguardi quando usciamo dal reparto e giriamo l’angolo, passando per la sala d’attesa. Ma noi stiamo dando tutto, e continueremo a farlo, nella speranza che le persone che assistiamo prima o poi si sveglino e ci parlino di loro».

Sono giorni di super lavoro in questa clinica di altissimo livello, dove la vita è appesa a un filo ed è nelle mani di operatori allo stremo, che si lasciano trasportare dalla passione per la professione e dall’amore per il prossimo quando le gambe tremano dalla stanchezza e le energie sembrano venir meno. «Non è semplice lavorare con le tute impermeabili, lo scafandro, la mascherina, il casco, gli occhiali a pressione - racconta Maria -. Cerchiamo di organizzare dei gruppi per suddividerci le attività e non indossare i presidi di sicurezza per più di 4 ore, anche perché siamo un bagno di sudore quando ce li togliamo. E’ fondamentale utilizzarli in modo adeguato, senza sprechi, perché sappiamo quanto ce ne sia bisogno negli ospedali. Paura di contrarre il virus? Chi ha scelto di fare il nostro lavoro, sa a cosa può andare incontro. Tutti noi abbiamo parenti a casa, anche a rischio. Ma ci sentiamo sicuri e prestiamo sempre la massima attenzione. Certo, in tanti anni di carriera, un’esperienza simile non ci era mai capitata. Non sappiamo cos’è il domani: ragioniamo sull’oggi, dando il massimo, aspettando che si risvegli il primo paziente infettato dal Covid. Vorremmo tornare presto alla normalità, girare l’angolo, incrociare un parente e dirgli: “Sì, ce l’ha fatta”. E invece siamo come piombati in un incubo, in qualcosa di sconosciuto, che però affrontiamo con tutto l’impegno del mondo, senza tirarci indietro per nessun motivo. Dobbiamo ringraziare la professionalità dei medici, dell’équipe, della caposala, degli Oss, del primario e della Direzione sanitaria, che hanno svolto un lavoro eccezionale, allestendo il reparto in pressione negativa e fornendoci tutti i dispositivi di protezione di cui abbiamo bisogno, senza dimenticare gli addetti alle pulizie dell’ospedale». Chi opera sul fronte sa quanto pericoloso e subdolo sia questo nemico chiamato Coronavirus.

«C’è ancora chi pensa sia una banale influenza - sospira Maria -.

Può esserlo per chi non ha problemi di salute, ma dobbiamo pensare alle persone che ci stanno accanto. Non è il momento di essere egoisti: questo virus non perdona se hai una patologia secondaria». L’appello nasce dal cuore e dagli occhi di chi ogni giorno si prende cura di pazienti attaccati ad un respiratore per colpa del Covid. «Restate a casa, non uscite: fatelo per noi e per i vostri cari. Il “tanto a me non succederà” non funziona: nessuno di noi è immune, basta un momento di leggerezza per essere contagiati e farsi portatori di una tragedia».

© RIPRODUZIONE RISERVATA