Folle raid razzista, lettera di Traini dal carcere: «Voglio laurearmi e mettere su famiglia. Reato odioso ma non sono un mostro»

Luca Traini
Luca Traini
di Benedetta Lombo
4 Minuti di Lettura
Venerdì 3 Dicembre 2021, 06:40

MACERATA - «Seguirò con ansia e con molta attenzione la Cassazione di Oseghale a gennaio 2022. Spererò nel lavoro della giustizia. Dio illuminerà la via. Probabilmente, quando uscirò, andrò a trovare la povera Pamela al Verano, così come andrò a trovare mia mamma».
A parlare con una lettera dal carcere è Luca Traini, in carcere a Montacuto dal 3 febbraio del 2018 quando a bordo della sua Alfa 147 nera attraversò Macerata sparando e ferendo sei persone di colore. Lo fece per “vendicare” l’omicidio di Pamela Mastropietro compiuto dal nigeriano Innocent Oseghale, una vendetta che gli è costata 12 anni di reclusione (la pena è diventata definitiva a marzo). 

 
Ora, in 13 pagine scritte a mano e inviate all’Adnkronos, si racconta e racconta la metamorfosi da “Lupo” a Luca. «Non sono un mostro. Il Luca di oggi è un uomo che magari fa meno notizia, rispetto al “Lupo”, ma che comunque c’è, esiste, sta facendo il massimo per scontare il debito che ha con la società civile e si impegna nella sua sfida - esordisce -. Sono in carcere ormai da quasi quattro anni. Spiegare cos’è, com’è il carcere a chi non ha mai avuto il “piacere” di esserci passato, non è facile. Ho trovato grande umanità sia da parte degli agenti penitenziari sia da parte dei detenuti. Con il tempo, la serietà e la correttezza con cui sto affrontando la detenzione, mi ha fatto acquisire il rispetto da parte di tutti. Non ho mai negato la gravità del mio gesto e ne ho accettato le conseguenze fin da subito quando fui io a tornare indietro e, andando al monumento dei caduti a Macerata, a consegnarmi ai carabinieri». Poi precisa: «Una certa ideologia che avevo e che ho manifestato in maniera folkloristica, altro non era che un’immagine fittizia che mi ero creato a scudo, come un contrasto con il brutto del mondo. Lo stesso per il fisico: al mio ingresso in carcere pesavo 132 chili di muscoli. Un colosso sviluppato in anni di palestra, per sfuggire al bullismo scolastico subito perché ero grasso. Andavo in palestra a fare i pesi per sfogarmi dalle delusioni in famiglia, al lavoro, della vita. Ora sono molto cambiato. Preferisco un fisico atletico, non per apparire. Qui in carcere faccio un po’ di palestra, un po’ di sport e da autodidatta faccio yoga e meditazione buddista, che ben si abbina alla preghiera cristiana. I miei hobby quotidiani, oltre alla ginnastica, sono leggere, ascoltare musica rock, soul e jazz. Poi scrivo moltissime lettere, leggo libri di ogni genere e svolgo le mansioni di cura della mia stanza. Da più di un anno sono aiuto-magazziniere in carcere. Sono in una sezione con detenuti di tutte le etnie, italiani, pakistani, albanesi, africani, e non ho mai avuto problemi né li ho creati. Non ho mai avuto rapporti disciplinari in quattro anni».
«Una volta sono esploso (riferendosi al 3 febbraio 2018).

Ora, ciò che è stato mi è servito per capire dove sbagliavo nella mia vita. Da quel giorno la mia famiglia non mi ha mai abbandonato, né materialmente né emotivamente. Hanno compreso l’errore, la gravità del mio gesto, ma allo stesso tempo hanno compreso che in quel periodo della mia vita non stavo bene di testa. Caso ha voluto che nessuno è morto, tutto si può risolvere». «Non rinuncerò mai alla mia voglia di futuro, alla voglia di crescere come un buon uomo e un buon cittadino, di costruirmi un destino, lavorare sodo, trovare una brava ragazza e mettere su famiglia, insomma vivere in pace. Se il sistema mi darà i mezzi e la fiducia per uscire da qui, io farò il massimo per essere un uomo migliore di come sono stato fino ad ora. Voglio laurearmi in carcere, avevo iniziato a studiare, ma poi a causa del Covid ho dovuto stoppare. Magari lavorare in semilibertà, in libertà vigilata. Vedremo, io farò il massimo. Dal lassù la mia cara mamma e la piccola Pamela mi guidano e mi proteggono».

© RIPRODUZIONE RISERVATA