Sanremo 2023, Gianluca Grignani

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Gianluca Grignani, settima volta a Sanremo. La prima come big fu nel ’95 (ha esordito l'anno prima a Sanremo Giovani con "La mia storia tra le dita") con Destinazione Paradiso, brano che ha scelto per la serata del venerdi in cui avrà ospite Arisa

«Le cose accadono come karma. Evidentemente “Quando ti manca il fiato” doveva passare da questo Sanremo per la necessità e l’urgenza di comunicare. Non sarei mai tornato se non fossi stato spinto dalla canzone. Non sono quel tipo di artista che pianifica il momento giusto». 

 

Nemmeno per marketing?

«É una strada che non mi appartiene. L’unico marketing che conosco è il mio istinto musicale. Perché o sei un artista o sei commerciante. E io sono artista. La fortuna è avere persone accanto che hanno la stessa visione. E io l'ho avuta con Enrico Melozzi (lo dirigerà anche sul palco, ndr)». 

 

 

Sarà in gara con “Quando ti manca il fiato”, nata anni fa dopo una telefonata. Il testo è molto forte.  

«É una canzone che racconta un fatto vero. Un giorno mi si è illuminato il cervello, oddio, per quel poco che mi è rimasto (ride, ndr) e ho iniziato a scriverla. Avevo il bisogno di sentirmi umano, come se volessi esorcizzare e reagire. Non vedo mio padre da 10 anni, non so se si ricorda di quella telefonata e non vorrei si sentisse male ad ascoltare il brano in diretta Rai (ha 80 anni). E' stata scritta di getto, per poi evolversi e assumere più una funzione esistenziale. Non rappresenta più solo la storia mia e di mio padre, ma è universale, per tutti. Una ballata blues che si chiude senza pesantezza e senza una morale, come fosse una liberazione». 

 

Quando manca il fiato nella vita?

«Quando fai i conti con qualcosa. E i conti li fai li fai nella vita solo una volta quando non puoi tornare indietro». 

 

Lei ha fatto i conti con se stesso?

«Li faccio da quando sono piccolo. Ho iniziato presto a camminare sul filo dell'equilibrista. La mia vita aveva delle falle, non era tutta rose e fiori, ero diverso dagli altri. Questo mi ha reso vulnerabile alle mie visioni. Ho imparato a stare solo, a essere giudicato per poi avere ragione. Ma il tempo cambia le cose. Una volta mia madre mi ha chiesto se ero felice, gli ho risposto che se fossi felice tutto il tempo non mi renderei conto di quando sono davvero contento. Se ci penso, credo di non essere stato felice più di un tot. Se lo fossi stato forse mi sarei annoiato. Un po’ come succede con una donna. Ancora a 50 anni non l’ho imparato (sorride, ndr)». 

 

E' stato giudicato anche per "La fabbrica di plastica", il suo secondo album registrato agli Abbey Road Studios a Londra e in cui lei suonava chitarra a 12 corde, chitarra acustica, chitarra elettrica. A seguito delle critiche lei ha detto: “Sono cresciuto. Ho soltanto avuto, questa volta, l'occasione di fare esattamente quello che volevo”. 

«Ero sicuro di quello che stavo facendo, forse era troppo per quei tempi. Ora è considerato il disco più bello della carriera, addirittura il migliore disco rock italiano. E’ stato pure recitato dal figlio di Quasimodo per il premio Federiciano. Forse nel 1996 vedevo cose che altri non vedevano. Ma l'arte è questo. L’artista mette luce laddove gli altri non lo mettono, sono quelli che creano. Solo crescendo mi sono reso conto chi ero. La rivoluzione fa paura. Penso ai Maneskin che sono criticati, eppure la loro è una scelta politica, sono fantastici a fare quello che stanno facendo anche senza una vera identità reale».

 

L'essere spesso criticato l'ha portato alla solitudine?

«In realtà non mi sono mai sentito solo. O forse, pensandoci, la solitudine riguarda tutti. Ma la solitudine non mi fa più paura».

 

E alla dipendenza?

«Odio parlare della droghe, perché non voglio dare alla droga pubblicità. Cosa abbia o non abbia fatto in passato, non penso sia importante, la mia musica parla per me e dice chi sono». 

 

Durante la sua carriera hanno detto che il suo sogno era il rock. Era vero? 

«Non sono rock, non faccio rock. Sono gli altri che lo dicono. Io amo il rock. Sono più easy, cantautorale, pop. Sono più figlio di David Bowie in questo. Ma se piace dire che faccio rock, va bene».

 

Come mai ha scelto Arisa per la serata sanremese degli ospiti?

«Arisa è la cantante più eclettica che abbiamo mai avuto nel panorama italiano, la amo follemente. Ci sono artisti e ci sono interpreti, lei è un’artista e un’interprete con le maiuscole. Per restare in tema, mi ricorda molto, un David Bowie femminile. Canteremo “Destinazione paradiso” perché ho la fortuna di avere nel mio repertorio una canzone che è entrata nella storia». 

 

Al Festival del 2012 lei è stato ospite di Carone e Lucio Dalla, per l'ultima apparizione in tv prima che morisse. Che ricordi ha? 

«Lucio è stato l’unico vero amico che ho avuto in questo ambiente. Lui era un catalizzatore, un visionario vero. La prima volta lo che lo conobbi venne a sentire come suonavo. Si nascose dietro una poltrona, non sapeva chi fossi, era affascinato dalla mia musica. Quando mi vide, ci bastò uno guardo per capire che ci comprendevamo a vicenda. La gente non sa che chitarrista sei, mi diceva. Lo capirà».

 

E lo ha capito?

«Sì, dopo sì».

 

Uno dei complimenti che le hanno fatto?  

«Che ero bello e affascinante (ride, ndr). Da giovane questa cosa mi dava quasi fastidio. Adesso, a 50 anni, se me lo dicono, sono solo contento. Mica è facile essere bello a questa età». 

 

Mogol l'aveva accostata a Battisti. Le aveva fatto piacere? 

«Molto, però avevo paura di essere accostato a chiunque. Ero innamorato della musica di Battisti, come del blues, del R&B, di Wilson Pickett e Neil Young». 

 

Tornando al brano in gara, oggi lei si sente più figlio o più padre?

«Più padre». 

 

Anche nella musica?

«No. Né figlio, né padre. Mi piace sperimentare, ascoltare, fare. Per ora sto lavorando al nuovo album insieme a Melozzi. E sono stato contento, per esempio, di suonare con Irama al Festival dell'anno scorso "La mia storia tra le dita"». 

 

E' più libero o meno libero rispetto al passato?

«Più libero. Senza dubbi».