Dopo i fiumi di lacrime per Giuseppe, alunni e sindacati in piazza: «Questo non è stato un incidente»

Dopo i fiumi di lacrime per Giuseppe, alunni e sindacati in piazza: «Questo non è stato un incidente»
Dopo i fiumi di lacrime per Giuseppe, alunni e sindacati in piazza: «Questo non è stato un incidente»
di Francesca Pasquali
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Sabato 19 Febbraio 2022, 07:10 - Ultimo aggiornamento: 20 Febbraio, 17:07

FERMO  - Che quello che ha ucciso Giuseppe Lenoci sia stato un incidente stradale i manifestanti scesi in piazza a Fermo ieri mattina non lo vogliono neanche sentire per sbaglio. Per loro, il sedicenne di Monte Urano morto lunedì a Serra de’ Conti sul quel furgone finito contro un albero non avrebbe mai dovuto salirci. Sarebbe dovuto stare a scuola, a imparare in classe il mestiere che avrebbe voluto fare da grande.

Hanno scelto Fermo per protestare contro l’alternanza scuola-lavoro gli studenti del collettivo Depangher, «perché i fatti ce lo impongono».

Con loro c’erano i sindacalisti della Fiom e dell’Usb e alcuni operai della Caterpillar di Jesi, a rischio licenziamento. “Questo non è un incidente di percorso” e “Alternanza repressione maturità, no alla scuola dei padroni”, le scritteche sono apparse sugli striscioni appesi sotto il loggiato di San Rocco.

Una piazza non proprio «aperta, senza simboli e senza sigle, per allargare il più possibile la partecipazione», com’era stata annunciata. Con le bandiere dei sindacati “rossi” a sventolare sotto il cielo terso. «Se quelli del Pd non sono venuti e ci hanno chiesto di non scendere in piazza per non innalzare il populismo, è perché sono stati loro ad aver voluto l’alternanza scuola-lavoro, sono coscienti delle proprie responsabilità e vogliono che vengano taciute», dice Riccardo, del Depangher di Macerata. Ieri, gli studenti in piazza sono scesi in tutta Italia. A Fermo, sono arrivati un po’ da tutte le Marche. Tra i volti giovani dei ragazzi e quelli più maturi di lavoratori e sindacalisti, anche quelli di Francesca e Sabino, i genitori di Giuseppe.

Che ascoltano e applaudono quando, alternandosi al microfono, i manifestanti dicono che quello che è capitato al loro figlio «non è stato un incidente, ma rappresenta un modello di scuola che mira all’educazione allo sfruttamento» e che «a 16 anni non si può morire in alcun modo», men che meno in quello. Anche se quella di Giuseppe non era alternanza scuola-lavoro, ma uno stage, per chi protesta non fa differenza. Perché «una scuola professionale deve educare al lavoro in maniera virtuosa e non affidare l’educazione lavorativa ad aziende esterne».

Puntano il dito contro il lavoro non retribuito di chi va ancora studia, i manifestanti. Che si chiami stage, alternanza scuola-lavoro, Pcto, tirocinio o in qualche altro modo. «Non c’è un vanto a insegnare un lavoro precario e sottopagato, facendo lavorare gratis ragazzi di sedici anni per aziende che fanno fatturato su di loro», dicono. «Gli istituti professionali – proseguono – devono garantire formazione professionale al proprio interno e non mirata alle logiche del profitto, studiando percorsi specifici con le imprese». Porta la sua esperienza Rodolfo Valentini, che frequenta l’Iti Montani ed è tra i promotori della manifestazione di protesta. «Da noi – spiega –, gli alunni si sentono molto educati dal punto di vista lavorativo. Si sentono di essere pronti al lavoro grazie ai professori e valutano pessimo l’effetto del Pcto». Dal particolare al generale, per lo studente, imparare un lavoro mentre si va a scuola «è molto utile ai ragazzi, ma è la formula che c’è adesso che non funziona, perché dovrebbe essere più centrata sull’educazione a scuola, con un’introduzione più marginale ma più efficiente al mondo del lavoro». Solo così, chiosa, «gli alunni saranno più consapevoli dell’effetto che il lavoro ha su di loro».

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