La lotta contro la violenza di genere e lo stereotipo che cambia ma resiste

La lotta contro la violenza di genere e lo stereotipo che cambia ma resiste

di Rossano Buccioni
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Martedì 3 Dicembre 2019, 15:18 - Ultimo aggiornamento: 10 Dicembre, 19:43
Sul Corriere Adriatico di martedì scorso la criminologa Roberta Bruzzone affermava che la violenza pur non essendo qualcosa di genetico, si subisce in ambienti dove un uomo si sente autorizzato a maltrattare, praticando violenza fisica e psicologica su coloro che gli vivono accanto. In antico, l’asimmetria tra maschile e femminile si valeva di cataloghi standardizzati di virtù e vizi, operando in modo tale da poter prescindere da riferimenti a dati biografici. La distinzione tra uomo e donna che si produceva nel campo delle virtù appariva obliqua rispetto alla distinzione generale femminile/maschile. Oggi invece essa appare mutata nella sua strategia di base, dovendo far fronte ad un mondo in cui gli oggetti spesso hanno più rilievo delle relazioni. Fino all’epoca moderna, includendo i ruoli sessuali molti altri ruoli, lo spazio concettuale per la distinzione di genere - basata sul criterio uguale/disuguale - non esisteva neppure. Fino ad allora anche il ruolo complementare della donna era classificato in modo non paragonabile a quello maschile. Età e sesso regolavano l’accesso a tutti gli altri ruoli e non era ancora possibile chiedersi se la dialettica tra i sessi potesse assumere carattere di uguaglianza o disuguaglianza. Perdendo di significato l’insieme delle attribuzioni in base al sesso, la questione dell’uguaglianza di condizione poteva finalmente emergere. Quindi dal momento in cui non fu più il sesso a fare la differenza, intercorsero molte meno distinzioni tra maschile e femminile, con la cooperazione di genere che crebbe per sostenere ruoli stabiliti dentro una mutazione delle rappresentazione del femminile e del maschile. Nella società complessa nessuno dei sistemi funzionali può rivendicare come proprio un monopolio del senso e la rappresentazione di qualcuno non può essere assoluta. Se questo è vero le antiche asimmetrie (maschile/femminile) che rendevano operativo il patrimonio di concetti di cui disponeva la società, hanno evidentemente trovato importanti percorsi sostitutivi, perchè la violenza sulle donne attesta che la più longeva opposition hiérarchique non cessa, spostandosi dall’orizzonte sociale/morale a quello dei vissuti biografici soggettivi. Anche se si potrebbe argomentare che la struttura sociale si mostra sempre fortemente conservativa, mantenendo lo squilibrio radicato dentro un patrimonio di significati che esclude la donna, la violenza di genere trova alimento all’interfaccia di competenze psichiche e sociali nuove. Allora, se la nostra società e la sua semantica pur mutando, restano centrate sulla dominanza maschile, lo si deve al fatto che nonostante questa società proponga una logica del funzionamento centrata sulla parità - al netto degli scopi da raggiungere che si mostrano di natura empirica – l’a-simmetria uomo/donna è fatta propria da nuovi livelli sociali di realtà. Vi è chi sostiene che il femminicidio sia la dimostrazione della difficoltà della “differenza femminile” di incidere nella struttura della società e nella realtà delle interazioni sociali, anche perché la rappresentazione del mondo ancora vincente – maschile – pur ampiamente in crisi, continua ad imporre delle pesanti ipoteche sull’auto-percezione che le donne hanno di sé stesse. Diversi sociologi hanno criticato il movimentismo femminista che sovente si arresta alla superficie dei fenomeni sociali, ignorando le logiche di lunga durata che ancorano il femminile ai paradossi dell’auto-rappresentazione costruitasi su di uno specifico patrimonio di concetti – mai neutro - di cui disponiamo per pensare. Il pensiero della differenza spesso divampa in rivendicazioni istantanee oppure invoca tempo per incidere sulle mentalità, ben sapendo però che queste ultime non sono storia delle idee, ma corpi articolati di credenze, pregiudizi, ideologie e stereotipi che nella società complessa continuano ad agire dentro obiettivi assai diversi da quelli storicamente stigmatizzati. Lo stereotipo ed il pregiudizio (di genere e non), anche nella web society hanno successo perché riescono a garantire egregiamente una semplificazione immediata dell’estrema improbabilità interpretativa che alter incontra quando ha a che fare con l’offerta comunicativa di ego. In conclusione, sembra assai improbabile cercare le condizioni per una lotta contro la violenza di genere dentro strategie di eliminazione dello stereotipo che si mantengono vincenti quando si tratta di ridurre la complessità socio-strutturale. Inoltre, la costituzionalizzazione della persona, pone i diritti nell’agone istituzionale del rapporto tra individuo e società, vale a dire su di un piano che eccede il genere, perché configura un diritto assoluto, quasi astratto, che dimentica le donne in carne ed ossa vittime di relazioni disumanizzanti, centrate sull’oggettivazione e la violabilità. Negli ultimi anni le riflessioni sulla disumanizzazione sono state recepite nello studio delle forme di oggettivazione della donna a partire dalla tendenza assai diffusa di avvicinare le persone sulla base della loro utilità, indipendentemente dalle qualità umane che esprimono. Secondo la sociologa Martha Nussbaum, il concetto di “oggettivazione” inerisce diverse dimensioni, tra cui la strumentalità (la persona-oggetto è strumento degli scopi altrui) e la negazione dell’autonomia che la priva della capacità di agire e denunciare. Evidentemente la persona-strumento diviene un alleato sociale con cui il violento cerca di rendere palesi le proprie competenze verso l’esterno e di occultare le proprie angosce sul versante interiore, soprattutto quando vede cedere la scena sociale che il partner aveva collaborato a rendere credibile. È questo il tragico connubio che ancora lega troppe donne al loro carnefice.

*Sociologo della devianza e del mutamento sociale
 
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