La crisi della scuola e il blocco della mobilità sociale positiva

La crisi della scuola e il blocco della mobilità sociale positiva

di Rossano Buccioni
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Martedì 13 Aprile 2021, 10:45

Nella perdurante crisi pandemica, si stanno fronteggiando due opposte idee di scuola: la prima appare ispirata da una mansione/funzione sociale “come se” (enfasi sulla garanzia di self empowerment), mentre la seconda è minimalista e sembra farsi carico della residualità delle funzioni di socializzazione analogica (rispetto a quelle digitali), ricercando una generica integrazione nel quotidiano dello psichismo giovanile. Il passaggio dalla didattica in presenza alla didattica on line, non è stato mai preceduto da seri piani di formazione dei docenti e di “mitigazione degli effetti” per gli studenti, con il risultato di un tragicomico tutti contro tutti che vede le famiglie esasperate dimostrare pubblicamente per il ritorno in classe (a dispetto di molteplici evidenze epidemiologiche) ed il corpo docente - tra i più anziani e demotivati d’Europa – giocare, suo malgrado, il proprio ruolo sociale sul registro eroico del salvatore di non si sa bene quale patria, nella routine di bidelli in cattedra, aule fatiscenti e cervellotiche burocrazie pedagogiche. L’insuccesso della Dad e le polemiche che ne sono sorte, hanno focalizzato l’attenzione generale su due punti: il diritto alla socializzazione dei più giovani e la necessità di fare tesoro dell’esperienza della Dad che l’emergenza pandemica ci ha costretto a valutare concretamente, con i suoi pregi ed i suoi difetti. Il processo di socializzazione è la configurazione di una struttura di aspettative che dall’esterno richiedono al sistema di personalità in costruzione di accettare specifiche prospettive di ingresso nel mondo. Non si tratta dunque del semplice stazionare nel gruppo dei pari, dove l’allevamento mediatico, frutto avvelenato del “diritto di comunicazione”, potenzia l’effetto di autonomizzazione psicologica giovanile, specialmente dal lato dello scioglimento dei vincoli che dirigendo sulla soppressione della significatività delle interazioni, potenzia gli effetti dell’universo di contaminazioni che vede l’elettronica e l’informatica fornire ai più giovani un contesto anomico di libera costruzione del sé e di incondizionata rappresentazione della realtà. Contravvenendo al clima di entusiastico “ritorno fra i banchi”, sarebbe il caso di ricordare come, fin dai primi progetti Ocse Pisa, molti programmi di ricerca, analizzando gli apprendimenti e gli stili cognitivi dei millennials, abbiano indicato un incremento della capacità delle tecnologie digitali nel modificare i comportamenti sociali e cognitivi dei più giovani. Tra più qualificati spicca quello del Ceri (Centre for Educational Research and Innovation), un programma di ricerca estensivo e comparativo che ogni tre anni analizza in maniera sistematica gli effetti della rivoluzione digitale sulle giovani generazioni. Si tratta di studi che dimostrano da anni il grande rilievo che le tecnologie stanno avendo sui sistemi d’istruzione, determinando quel miglioramento negli apprendimenti che occorre interpretare come progressivo adeguamento degli stili cognitivi dei giovani ad un contesto che transita dalla sapienza all’informazione. Alla luce di questa grande trasformazione, la tecnologia costituisce un fattore rilevante nel successo formativo. Se si considera infatti l’accesso ad Internet ed alle tecnologie digitali, si rileva come i risultati scolastici della minoranza esclusa dall’utilizzo della rete, siano decisamente inferiori. L’esclusione scolastica è allora un corollario di quella digitale, che il giovane pagherà in molteplici direzioni di vita. Se prima della pandemia si dibatteva molto di “emergenza educativa”, rimarcando la crisi della funzione sociale della scuola soprattutto dal lato dell’incapacità di leggere le esigenze dello “specifico digitale” giovanile, in che senso la Dad è stata un fallimento? Se il “digitale” è un habitat che il nativo sa interpretare perfettamente già a tre-quattro anni – grazie allo sviluppo di sofisticate propensioni relazionali, completamente al riparo dal controllo familiare - la Dad non poteva funzionare proprio perché reintroduceva la tipica dimensione verticale della scuola nel mondo dell’orizzontalità dei pari, dove l’Eldorado della “gamification” allontana il Purgatorio del giudizio adulto, ispirato da criteri che con quelli digitali hanno poco a che fare. Dunque non è la didattica in presenza che restituisce diritto agli esclusi, ma è la promozione personale dentro un ambiente digitale che consente l’accesso alle sorgenti dell’apprendimento e della costruzione delle competenze necessarie. Il ritorno alla didattica in presenza consegna nuovamente i giovani al loro solipsismo di silicio, restituendo la professione docente alla dispensa di ricompense simboliche in cui i nativi digitali non riescono a rispecchiarsi. Essendo molti giovanissimi esclusi dalla società tecnologica (non dal processo formativo che vi corre in parallelo), l’equivoco consiste nel considerare la scuola parte attiva della vera socializzazione, quella tecnologica. La scuola permette di relazionare i giovani con altri giovani, ma l’interfaccia con la complessità dei sistemi sociali di funzione ottenibile attraverso il curriculo scolastico, non è più garanzia di mobilità sociale positiva. La levata di scudi di questi periodi – con l’inevitabile coda di polemiche - è frutto di questa ortodossia ideologizzante che, invocando l’eco distorta del dare tutto a tutti - garantendo maldestramente a ciascuno quel che davvero conta - ed incensando la scuola come luogo di promozione personale, finisce per ridurla di fatto a banalissimo ammortizzatore sociale, area di parcheggio di soli diritti per la scaltrita indolenza dei “bambini del desiderio” (M. Gauchet), abituati ad oscillare pericolosamente tra l’ansia e la noia.
*Sociologo della devianza e del mutamento sociale