Il progresso senza fratture tra capitale umano e ricerca

Il progresso senza fratture tra capitale umano e ricerca

di Donato Iacobucci
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Mercoledì 14 Dicembre 2022, 01:10

C’è stato un momento nella storia del nostro paese in cui alcune generazioni di imprenditori visionari hanno immaginato di proiettare il sistema produttivo italiano alla leadership internazionale in settori che in quel momento registravano la maggiore effervescenza di domanda e di tecnologia. Si possono citare Adriano Olivetti per le macchine per ufficio e i computer; Aristide Merloni per gli elettrodomestici; Leonardo del Vecchio per l’occhialeria. Sono alcuni esempi di una folta schiera di imprenditori che ha caratterizzato lo sviluppo dell’industria italiana dal dopoguerra agli anni ’80. Ho scelto questi tre esempi perché la loro attività imprenditoriale è iniziata in piccole città di provincia: Ivrea nel caso di Adriano Olivetti, Fabriano nel caso di Aristide Merloni, Agordo nel caso di Leonardo del Vecchio.

Protagonisti industriali

Nel diventare protagonisti industriali nei rispettivi settori essi hanno anche determinato, più o meno consapevolmente, una significativa trasformazione economica e sociale di quei territori. Territori nei quali era possibile riscontrare qualche vestigia di passato industriale ma che all’inizio del miracolo economico italiano erano ancora caratterizzati dalla prevalenza di occupazione agricola e che sarebbero stati probabilmente destinati ad un forte flusso di emigrazione. Al contrario, sono diventati sede di realtà industriali di rilevanza internazionale. Il travaso di occupazione dall’agricoltura e dall’artigianato verso l’industria si è tradotto in uno straordinario incremento della produttività, cioè del valore aggiunto per occupato. E’ ciò che ha consentito al nostro paese di entrare a far parte della cerchia dei paesi industrializzati e di finanziare un sistema di welfare pubblico in grado di assicurare livelli di prestazione simili a quelli degli altri paesi avanzati. Nessuno all’epoca dubitava del fatto che il progresso e la modernizzazione passasse per l’abbandono delle tradizionali strutture economiche e sociali.

La trasformazione nelle Marche

Nelle Marche questo processo di trasformazione è avvenuto in modo meno traumatico rispetto ad altre aree del paese tanto che il volume dell’economista Giorgio Fuà dedicato allo sviluppo economico delle regioni del nord est e del centro era significativamente intitolato: Industrializzazione senza fratture.

Fra le caratteristiche che hanno limitato le “fratture” tipiche dei rapidi processi di industrializzazione vi era il fatto che esso si è basato in larga misura su imprese di piccola e piccolissima dimensione. L’industrializzazione, e il conseguente aumento della redditività, sono però associati non solo all’aumento degli occupati in attività manifatturiere e di servizi avanzati ma anche al loro impiego in strutture organizzative moderne. Proprio Giorgio Fuà, in quel volume appena citato, metteva in guardia dal fatto che un’industrializzazione basata sulle piccole imprese presenta dei vantaggi ma anche dei limiti; associati alla bassa qualità del fattore organizzativo-imprenditoriale e alla carenza di imprese dotate di strutture organizzative moderne.

Piccolo è bello

Queste considerazioni sono state sottovalutate a favore di una visione ingenua dei distretti industriali e del "piccolo è bello" che ha prodotto due conseguenze: da un lato ha ritardato interventi più decisi sulla qualità del fattore organizzativo-imprenditoriale e sui modelli organizzativi e di governance delle imprese; dall’altro ha limitato l’investimento nei fattori che sono alla base della competitività nel nuovo contesto dell’economia della conoscenza: il capitale umano e la ricerca. Il risultato è che da oltre vent’anni l’Italia ha il peggior risultato in termini di produttività a livello mondiale e le Marche viaggiano da tempo ad un ritmo inferiore a quello medio nazionale. A fronte della crescente situazione di difficoltà è sempre più diffusa la convinzione che se ne possa uscire con un più efficace sfruttamento del nostro patrimonio storico-artistico e ambientale. A questa convinzione è associata l’idea che il ritorno alle tradizioni ci darebbe la possibilità di vivere di rendita con quanto abbiamo ereditato dal passato. Mai come adesso avremmo invece bisogno di imprenditori visionari capaci di interpretare il presente e proiettarci nel futuro.

*Docente di Economia alla Politecnica delle Marche
e coordinatore Fondazione Merloni

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