Usa, assalto al congresso: quell’azzardo che indebolisce la democrazia

Usa, assalto al congresso: quell’azzardo che indebolisce la democrazia

di Vittorio E. Parsi
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Giovedì 7 Gennaio 2021, 00:14 - Ultimo aggiornamento: 10:24

La giornata più nera nella storia recente della democrazia americana. L’assalto dei sostenitori di Donald Trump al Senato degli Stati Uniti è riuscito a interrompere la procedura di ratifica dell’elezione di Joe Biden da parte delle Camere riunite in seduta congiunta. Quella che doveva essere una mera presa d’atto formale di quanto verificatosi il 3 novembre è stata trasformata nell’ultimo ridotto del trumpismo più estremista per volontà dello stesso presidente uscente. Non contento di aver tentato senza fortuna ogni possibile carta per ribaltare la realtà dei fatti – la sua sconfitta – il più ingombrante di tutti i losers della storia americana, aveva prima attaccato per l’ennesima volta il suo vice Mike Pence, che presiedeva la seduta, e infine arringato la folla dei suoi sostenitori, assiepati tra la Casa Bianca e il Congresso. Il risultato è stato quello che ieri tutto il mondo ha visto: immagini che rimandano a Minsk e a Lukashenko e non alla capitale degli Stati Uniti.

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Nel suo eversivo comizio, Trump ha evocato come al solito la bufala delle elezioni “rubate” e soprattutto ha fatto ricorso al più classico tra gli arnesi dell’armamentario populista: la contrapposizione tra i l’establishment e “il popolo”, invitando quest’ultimo a riprendersi il partito.

Ma c’è di più. Il popolo cui Trump ha alluso è chiaramente il “suo”: cioè una fazione nella fazione, che lui rappresenterebbe per una sorta di investitura carismatica, e i cui “diritti” – le cui pretese, in realtà – dovrebbero prevalere nei confronti di quelle del popolo inteso come “insieme dei cittadini”: quel We, the People con cui si apre la Dichiarazione di indipendenza. La retorica di Donald Trump in questi ultimi due mesi è divenuta sempre più incendiaria e apertamente sovversiva, tanto più nella bocca non di un semplice candidato alla presidenza, ma del presidente in carica. Trump, con la disonestà intellettuale e l’ipocrisia che lo contraddistingue, ha successivamente invitato i suoi sostenitori a non utilizzare la violenza contro la polizia, ma non a sgomberare il Congresso.

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Quello che è successo ieri ci mostra, ancora una volta, come il presidente sia disposto a qualunque azzardo pur di tentare di non uscire di scena. L’assenza di scrupoli fa parte della sua biografia personale oltre che politica. E lancia una sfida ai maggiorenti del Partito repubblicano, che ora dovranno decidere se, dopo quello che è successo ieri, intendono procedere rapidamente a scaricare Donald oppure se vogliono legare il futuro del partito a quello del presidente che, pur raccogliendo un’imponente quantità di voti, è risultato tuttavia sconfitto. La scelta non sarà per nulla indolore. Nella stessa giornata di ieri la Georgia mandava al Senato il primo senatore nero della sua storia (e il primo senatore ebreo) e decretava la fine della maggioranza repubblicana al Senato. E anche il locale palazzo del governo è stato preso d’assalto dai sostenitori di Trump. Se pure quanto successo ieri certifica la sua sconfitta politica, e anche vero che in qualche misura ne oscura la responsabilità della fallimentare leadership che ha portato lui fuori dalla Casa Bianca e privato i repubblicani della maggioranza al Senato. 

E adesso? Intanto la ratifica è stata sospesa, ma è difficile che il presidente possa illudersi di cavalcare ulteriormente l’illegalità. Se dovesse decidere di appoggiare apertamente l’azione violenta dei suoi sostenitori, è ben consapevole che le forze armate lo bloccherebbero, perché, nonostante Trump, gli Stati Uniti non sono la Bielorussia.

È d’altra parte vero che Trump avrebbe raccolto ancora molti fondi in questi due mesi che potrebbero consentirgli di fondare un ”suo” partito e di mettere nei guai i repubblicani. All’interno della stessa aula dove si stava svolgendo la procedura di certificazione dell’elezione di Joe Biden, un certo numero di senatori e deputati repubblicani aveva infatti offerto una sponda alla strategia di contestazione del risultato: una testimonianza che non tutti i repubblicani sono ancora convinti di “mollare” il presidente sconfitto e forse sono disponibili a seguirlo in una nuova e diversa formazione partitica.
 

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