Domani ritorno in classe per sei milioni e mezzo di alunni, il 77 per cento del totale di iscritti alle scuole statali e paritarie. Per otto allievi su dieci ritorno alle lezioni in presenza, sì, ma come, in quali condizioni?
Aprile 2020: inizio dell’annus horribilis del virus, questo maledetto sconosciuto che si è abbattuto su tutto e tutti flagellando dove poteva nello smarrimento generale. Ci ha colto impreparati, a mani nude: se ne sapeva poco, anzi quasi niente anche se poi si è fatto molto per capirne di più.
Aprile 2021: un anno dopo, a che punto siamo? Abbiamo presidi attrezzati, il vaccino (almeno quando è disponibile), mascherine a volontà, tamponi facili e persino cure più efficaci. Soprattutto abbiamo cinque vaccini variamente distribuiti, tutti efficaci, pur tra polemiche e contraddizioni. E allora? Allora non si può dire che siamo tanto più avanti se tra poche ore le scuole riaprono e viene da osservare, con rammarico e preoccupazione, che in un anno è cambiato poco o nulla. In un clima costellato da dibattiti tra esperti sempre in disaccordo, e poi strappi, convulsioni e giravolte d’ogni genere.
Un anno durissimo per chi nel mondo della scuola vive, lavora e studia. Il rush di fine stagione si annuncia incerto e denso di ragionate inquietudini. C’è il fondato timore che lo scatto d’iniziative sulla prevenzione sanitaria e sulla messa in sicurezza di personale, allievi, ambienti e trasporti sia rimasto pressappoco all’anno zero. La distribuzione generalizzata e gratuita delle mascherine è tenuta sovente nel cassetto dei desideri; il distanziamento nelle aule solo dove si può e si può in un numero limitato di edifici mentre si discetta ancora sui famigerati banchi a rotelle, stigma di una passata gestione commissariale della pandemia. La buona volontà c’è ma contro il Covid-19, s’è visto, non basta. Accanto alla correttezza dei comportamenti individuali le strutture dovranno fare la loro parte.
E’ vero, ottocentomila su un milione i vaccinati tra professori e addetti, almeno con una dose, ma la platea dei soggetti a rischio virtuale è di quasi dieci milioni. In attesa, fiduciosa attesa. Dunque, siamo lontanissimi dagli standard di sicurezza auspicati per decidere un abbandono quasi generalizzato della Dad, certo defatigante per studenti e insegnanti e tuttavia in taluni casi scudo a protezione individuale indispensabile.
Mentre in Germania viene disposto l’obbligo per tutta la popolazione della scuola di sottoporsi a test antigenici gratuiti ogni quindici giorni, da noi l’ipotesi di adottare questo filtro è rimasta sulle carte ministeriali. E lì ancora giace in attesa magari che, chiusi i corsi per quest’anno, non sia più d’attualità. La raccomandazione del premier Draghi va raccolta e attuata: occuparsi subito e intensamente della scuola, del recupero possibile dei mesi perduti e della cura di quella ferita psicologica che si chiama straniamento scongiurando un costo sociale fattuale e futuro incalcolabile. Sì, perché, un anno dopo l’avvio di questa indicibile tragedia il mondo della scuola sembra aver bisogno di una terapia d’urto d’insieme. E’ proprio il caso di rileggere e tenere a mente le parole di Piero Calamandrei, uno dei padri fondatori della Repubblica: “Se si vuole che la democrazia prima si faccia e poi si mantenga e si perfezioni, si può dire che la scuola a lungo andare è più importante del Parlamento e della Magistratura e della Corte Costituzionale”. Sì, caro Calamandrei, a lungo andare.