di Paolo Balduzzi
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Venerdì 30 Aprile 2021, 00:10

Una delle ragioni per cui dovremmo ringraziare Mario Draghi (e, non dimentichiamolo, l’Unione Europea) è di averci mostrato quante cose si possono fare con 248 miliardi di euro. È all’incirca questo il conto delle spese previste nei prossimi cinque anni per trasformare il nostro Paese, per sanare le sue ferite, per tornare a crescere come non facciamo da decenni. 

Centinaia di miliardi spalmati su 336 pagine, 16 componenti, 6 missioni, 4 riforme di contesto e 3 priorità trasversali di un Piano nazionale di ripresa e resilienza decisamente, e giustamente, ricco e ambizioso. Talmente ambizioso da rischiare di restare un libro dei sogni. Ma il realismo, bisogna ammetterlo, non manca al premier. Dalle sue parole è evidente come gli siano ben noti i mali del Paese e i suoi limiti. Non a caso quindi il primo capitolo del Piano è proprio dedicato alle famose riforme di contesto che servono a questo Paese anche più dei tanti miliardi che arriveranno: la giustizia, la burocrazia, la concorrenza, il fisco. 

Si tratta di un fardello che impedisce al Paese di crescere e che più volte la Commissione europea ha inserito tra le raccomandazioni inviate ogni anno all’Italia – e sempre ignorate - in sede di approvazione della legge di bilancio. L’effetto di tutto ciò è mirabilmente descritto in una frase che apre il Pnrr.

La frase è la seguente: «Tra il 1999 e il 2019, il Pil in Italia è cresciuto in totale del 7,9 per cento. Nello stesso periodo in Germania, Francia e Spagna, l’aumento è stato rispettivamente del 30,2, del 32,4 e 43,6 per cento». Una differenza talmente marcata che fa pensare a un errore di stampa. Che però non c’è. 

E non è questo (falso) errore di stampa l’unica cosa che manca per realizzare “il libro dei sogni”, bensì alcuni elementi fondamentali. Il primo sta proprio nei contenuti. Troppa poca attenzione è dedicata alle dinamiche di spesa pubblica. Alla revisione della spesa sono dedicate poche righe, nemmeno una pagina, rimandando peraltro a una legislazione già in vigore e mai veramente applicata. Il classico paradosso all’italiana: ci si impegna ad applicare una legge esistente (la revisione della spesa come processo integrato del bilancio) invece di, più banalmente, applicarla davvero! 

E ancora di meno si dice del debito, sbrigativamente considerato sotto controllo se il Pnrr avrà gli effetti previsti dal miglior – e quindi poco probabile - scenario possibile. Un aspetto su cui il presidente del Consiglio è tornato anche nella replica al Parlamento ma che continua a convincere poco. 

Il secondo elemento che manca è il tempo: l’orizzonte del Pnrr è il prossimo quinquennio, quello della legislatura il 2023. Cosa significherà un’elezione e quindi un probabile cambio di governo tra soli due anni? E infine manca, nella società e ancora in gran parte della classe politica, una consapevolezza generale di quali siano gli ordini di grandezza della finanza pubblica. Quante cose, abbiamo esordito, si possono fare con 248 miliardi di euro in cinque anni. E ci si dimentica, o si ignora, che l’ammontare della spesa pubblica italiana, in un solo anno, vale ormai circa 900 miliardi, disseminata in rivoli a volte difficili da ricostruire. 
Ma la cifra più impressionante è quella che riguarda il comparto pensionistico: nemmeno a farlo apposta, miliardo più, miliardo meno, proprio 248 miliardi, erogati ogni singolo anno dall’Inps per finanziare 23 milioni di trattamenti previdenziali a 16 milioni di pensionati, un quarto della popolazione italiana.

Il 60% dei redditi pensionistici è superiore ai 1.000 euro mensili, il 40% è superiore ai 1.500. Certo, resta un 40% di redditi pensionistici inferiori ai 1.000 euro. Ma qui si esce quasi totalmente dal campo previdenziale e si entra in quello assistenziale: si tratta di interventi per ultra 65enni senza altro reddito, pensioni per invalidità civile, integrazioni al minimo. Insomma, trattamenti del tutto giustificati – ma a volte abusati - sulla base della solidarietà e della lotta alla povertà ma che, appunto, nulla hanno a che fare con la protezione di chi per tutta la vita ha lavorato e ha pagato contributi previdenziali. Concentriamoci quindi solo sui primi, per cui i trattamenti pensionistici sono più elevati, ben oltre la soglia di povertà, che infatti è minima tra gli anziani. 

Il premier ha ribadito più volte che questo Piano ha come obiettivi trasversali quelli di favorire lo sviluppo del Mezzogiorno, di promuovere l’indipendenza femminile, di proteggere i giovani. Ecco, proprio i giovani sono coloro che vengono maggiormente penalizzati dalle passate e dalle attuali regole pensionistiche. Da quelle passate perché è sulla base delle generose regole antecedenti la riforma Dini (1995) che i giovani oggi devono finanziare la spesa pensionistica. E da quelle attuali perché è sulla base di queste - più attuarialmente eque ma anche meno generose - che saranno calcolate le loro pensioni. 

È davvero sempre troppo pensare a un coinvolgimento del sistema previdenziale per stimolare il rilancio del Paese? Il Pnrr mette nero su bianco cifre e tempi di realizzazione, rendendo evidente che anche solo un piccolo contributo di chi molto ha ricevuto e riceverà dal sistema previdenziale potrà essere utilissimo alle nuove generazioni. Di cosa si parla, invece, parallelamente al Pnrr? Di prorogare quota 100 e di anticipi pensionistici, in un Paese in cui l’età media di pensionamento, al momento, è ancora piuttosto bassa (62), di cinque anni inferiore a quella legale. Il sistema pensionistico è un fardello, economico ma anche politico, che pesa sul sistema e sulle sue capacità di sviluppo tanto quanto quelli della burocrazia eccessiva, della giustizia lenta e del fisco oppressivo. Metterci mano non significa tagliare i benefici a chi se li è sudati e meritati nel corso della propria carriera bensì ragionare su tutte le disuguaglianze che scelte politiche scellerate hanno creato e consolidato nel tempo. Purtroppo, a quanto pare, riformare le pensioni è un obiettivo troppo ambizioso anche per un “libro dei sogni”.
 

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