di Mario Ajello
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Venerdì 4 Dicembre 2020, 00:10

Il Natale ristretto, o da seconda ondata, è una rinuncia necessaria. Vale da contraltare rispetto al Ferragosto sciaguratamente allargato, la prima ondata che fu considerata finita e non lo era affatto. E prova a guardare avanti, questo Natale tra pochi intimi, in un Paese che si deve fortificare anche fisicamente per sentirsi pronto nel 2021, l’anno del vaccino, a rimettere in piedi un’Italia bisognosa di nuovo futuro. 


Un Natale diverso e speciale, discontinuo rispetto a tutti i precedenti, ma non potrebbe essere altrimenti in tempi in cui la discontinuità investe ogni ambito e tutto è cambiato (in peggio) e tanto dovrà cambiare ancora. E potrà cambiare in meglio, se si acquisisce la consapevolezza - la tavola del Natale tra pochi congiunti senza baldoria potrà diventare un momento di riflessione importante - che gli sforzi servono e possono valere come spinta per un rinnovamento che sia morale, nel senso di una nuova morale patriottica e civile, ma anche pratico. Nel senso che si concretizzi in progetti di sviluppo delle occasioni di lavoro, delle infrastrutture che rendano più veloce e più accessibile l’intera Penisola a cominciare dal suo Sud finora dimenticato, della formazione e della ricerca - la gara tra i Paesi nel post Covid sarà una competizione tra cervelli - e in generale di tutta l’Italia di prima.

La quale non potrà più permettersi quell’auto-compiacimento statico che portava Ennio Flaiano a ironizzare così seriamente su molti di noi: «Ha una tale sfiducia per il futuro che fa i suoi progetti per il passato».


Sono comprensibilissimi insomma i dispiaceri di chi vorrebbe un Natale normale. Con tutti gli affetti, anche quelli più larghi e solitamente poco frequentati, riuniti intorno all’albero, al presepe e alla tombola. Le tradizioni sono tradizioni, la certezza della ripetizione del sempre uguale rassicura e cementa come devono fare i riti vissuti veramente. Natale non è un Black Friday qualsiasi, ecco. Però questo Natale che come tutti i Natali celebra la nascita di Cristo, non può non essere caricato anche di un significato laico molto speciale. Quello di un Rinascimento, a patto di scoprirci capaci di stare all’altezza di un compito così profondo e impegnativo che comunque in altre epoche occazioni abbiamo dimostrato di saper sostenere anche più e meglio di altre nazioni. Ma serve concentrazione. 


Un 24-25 dicembre meno distratto del solito può contenere le sue positività. Non è vero, a dispetto di tutti gli sfoghi e in certi casi alle lagne che popolano i social in queste ore, che non possiamo passare un Natale senza stare in trenta in una casa e che se la messa non è a mezzanotte (e assembrata) non è una messa. Il Covid è una cosa seria e come tale va affrontata, anche nei giorni sacri e in quelli del divertimento. Questo Natale tra pochi intimi o in modalità Nad (Natale A Distanza) può valere come un rito di passaggio, di quelli che servono a crescere.

L’altro giorno Pierluigi Castagnetti, persona di estremo equilibrio e molto vicino al presidente Mattarella, ha fatto un tweet che vale la pena citare per intero: «È abbastanza prevedibile che alla fine della pandemia le attuali classi dirigenti, pressoché tutte, lentamente usciranno di scena. Non solo in Italia. Questo è il tempo perché la Chiesa, le università, i mondi vitali comincino a seminare e a selezionare, perché il dopo sia buono». Ecco, il dopo si forma adesso e se davvero tutti hanno capito la gravità del momento e la portata della sfida che ci attende, non ci possiamo attardare nel rimpianto di una normalità per ora impossibile e fingere che possa essere tutto come prima, compreso il cenone (anche quello di Capodanno). Senza il quale trionferebbe, a detta dei sociologi, la solitudine di massa e la tristezza della folla solitaria. Ma suvvia!


Il Natale ristretto non è affatto il trionfo del cosiddetto “Stato igienista”. Non c’è nessun Mr. Scrooge dickensiano che vuole annullare questa magnifica celebrazione che quando passa, parafrasando la canzone di Lucio Dalla, l’Italia «piange e ci rimane male». E non c’è nessun cattivone che vuole scombinare quella che Spinoza chiamava la «geometria degli affetti». E’ soltanto che il cosiddetto distanziamento sociale non è una religione ma una regola di Stato e come tale non può essere applicata à-la-carte: oggi sì, domani no, il 24 dicembre non sia mai però il 6 gennaio magari sì, a rischio di far offendere la Befana. Il Natale nella sua versione sacra come in quella profana è un momento fondamentale della vita della nostra comunità nazionale ma anche la lotta al virus lo è assolutamente. I due concetti possono benissimo stare insieme. A patto che si colga il fatto che stavolta questa festa può servire a recuperare una spiritualità civile, uniti si vince ognuno nel suo nucleo ristretto, anziché risolversi nella solita festa che se tutto va bene si farà l’anno prossimo. E questo strano Natale non allenta i rapporti familiari. Semmai li solidifica perché fa sentire il bisogno degli altri ancora più fortemente e ciò (anche grazie a Zoom) unisce e crea una condivisione di destino che è quella che rende solido un Paese e capace di farlo protagonista di una storia. 


Insomma, non ha mai avuto tanto senso il Natale come momento di raccoglimento quanto ce l’ha quest’anno. Mai come stavolta gli anziani e i bambini - le fasce più sofferenti nella pandemia - sono i veri protagonisti e noi facciamo un passo di lato preoccupandoci soprattutto di far stare bene loro. Che sono gli uni la memoria attiva dell’Italia e gli altri il suo futuro. Ma non c’è futuro senza salute e non ci sarà ondata zero senza un Natale anti ondata due.
 

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