di Mario Ajello
5 Minuti di Lettura
Mercoledì 2 Febbraio 2022, 23:58 - Ultimo aggiornamento: 3 Febbraio, 00:10

Proprio come Roma, la Vitti era un’anti diva. Incarnava il genius loci in quel misto di semplicità e di grandezza che apparteneva sia a lei sia alla Capitale e si è trattata di una simbiosi tra artista e città che pochi personaggi - dal Belli ad Albertone - si sono potuti permettere. Proprio come Roma, Monica - anzi Maria Luisa Ceciarelli, questo il suo vero cognome che più romanescamente pop non si potrebbe immaginare - non aveva bisogno di tirarsela troppo perché conosceva, anche nel dubbio e nelle angosce, la propria forza. 

«Nun je da’ retta, Roma», cantata splendidamente con Gigi Proietti. «Ma ‘ndo vai se la banana non ce l’hai», intonata strepitosamente con Sordi. Tutti ricordano in queste ore, col sorriso e con la lacrima,  quelle scene. E sui social, nei bar, nelle chiacchiere tra amici, nel comune cordoglio come se si fosse persa una parente adorata, è un continuo «Ciao, core de Roma e grazie di tutto Monica». Mentre sui muri della Capitale ancora si vedono i disegni comparsi il 3 novembre, in occasione del novantesimo compleanno della Vitti, e si legge ancora: «Monica, amore nostro». Retorica? Semplicemente, affetto. Era una romana da sette generazioni nata a Piazza Cavour, tifava per la Lazio, sapeva far ridere la gente e commuoverla come riescono a fare i molto grandi. E tutti la immaginando adesso mentre va in giro, nell’aldilà, con la scalcagnata compagnia di Polvere di stelle e da lassù manda una carezza alla sua città, che l’ha custodita negli ultimi anni nella casa storica di Brunetti a due passi da Piazza del Popolo - lei e il suo amato marito più infermiere e badanti - e con la quale c’è stato un continuo scambio di identità, io a te la mia, tua a me la tua, e tutto coincideva. Tranne una cosa. La durata. «E’ talmente sicura di sé, Roma, che non ha paura di niente», diceva Monica: «E’ lei che è eterna, mica noi». 

La Vitti si descriveva così: «Sono innamorata pazza di Roma e dei suoi colori che, senza di lei, sarei molto più triste». In realtà Monica è sempre stata una “tristallegra”. Diventò attrice - lo ha scritto nell’autobiografia - perché un’amica, mentre stava lavando i pavimenti di casa, le consigliò: perché non ti metti a recitare? «Mi sentii - così avrebbe spiritosamente raccontato la Vitti - come una Cenerentola scoperta dal principe». Ancora Roma con i primi atti unici al teatro Arlecchino, oggi è il Flaiano, e le rappresentazioni al teatro (che non c’è più) di via Piacenza, dietro al Quirinale: un piccolo palco mezzo scassato e in platea le poltroncine sgualcite.

Piazza della Croce rossa dove aspetta l’autobus, vede dei «pazzi  ma pazzi felici» e decide di seguirli: e quelli la portano nell’accademia di arte drammatica Silvio D’Amico. Il bar di via di Villa Massimo in cui leggeva un libro la cui protagonista era una certa Monica e da lì le venne l’idea di darsi questo nome d’arte (quello vero era Maria Luisa). E via così, fino a fare di Roma la sua Holliwood. E il set del suo amore con Michelangelo Antonioni, nella casa di via Tiberio divisa in due da una scala a chiocciola e lei avrebbe voluto unire le forze e gli spazi in un matrimonio ma lui no. Ma prima ancora: doveva essere una delle Ragazze di Piazza di Spagna, il film di Luciano Emmer del ‘52, ma al provino la scartarono: «Hai un naso non regolare». Cosa che le sarebbe stata successivamente ripetuta infinite volte dai produttori che le consigliavano di accorciarlo: «Ma abbiamo vinto noi, io e lui», diceva scorrendo col dito lungo il setto nasale. Non si è persa neppure un pezzettino della Capitale nel corso di una vita da romana della porta accanto ma anche da artista d’avanguardia sulla Collina Fleming, nell’abitazione di Antonioni dove facevano cenacolo. 

E il Teatro delle Vittorie, cuore di Prati, per Canzonissima edizione ‘72, ospite fissa con Vittorio Gassman? O le dune di Sabaudia, in «Amore aiutami» (film da regista di Sordi), che sono state le sue dune e quel pezzo di litorale laziale il suo luogo dell’anima, meraviglioso e selvaggio come lei. Si potrebbe non finire più nella mappa dei pezzi e dei posti dell’infinito amore di Monica per la romanità. «Il fatto che i romani non si stupiscano più di niente - così sosteneva - è perché loro se lo possono permettere. Anzi, noi. Abbiamo visto tutto, sappiamo tutto, ed è naturale per chi vive in una città che ha talmente tanta storia da far invidia a tutto il resto del mondo». Aveva uno strano mix la Vitti, che la rendeva unica. Che cosa c’entrano le sue angosce e i suoi lunghi piedi «da esistenzialista» (così le diceva la madre) con quella fame atavica, allegra e vorace, che l’ha vista in molte scene dei suoi film divorare fettuccine, abbacchio, minestrone, pizze e intingoli? Nessuno più di lei ha saputo rappresentare in maniera naturale questa fusione di alto e basso di cui Roma è l’esempio massimo nel suo ibridare profondità e leggerezza. «La Capitale - disse una volta - può anche non stupirti, perché in fondo è pigra». Ma a lei lo stupore per Roma non è mai passato, e viceversa.

© RIPRODUZIONE RISERVATA