di Mario Ajello
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Martedì 2 Febbraio 2021, 00:10

La misura del dramma in corso, quello di una politica che non ha saputo e non sa dare risposte vere all’emergenza sanitaria, economica e sociale, è data da un paradosso. Quello degli imprenditori e dei sindacati che sentono il bisogno, come italiani e come gran parte degli italiani, allibiti davanti ai giochetti partitici e al “battutificio” della crisi di governo, che si arrivi alla scelta di un premier di alto profilo. 

Che cosa significa questa espressione? Vuol dire una guida sicura, ampiamente riconosciuta, capace di fare politica e non di giocare cinicamente alla politica, dotata della forza di poter fare scelte anche radicali - all’insegna della discontinuità che la pandemia ha necessariamente generato - ma rispondenti ai bisogni collettivi. In grado perciò di rimettere in moto un Paese che, nei suoi ceti produttivi, nel mondo del lavoro, nella cittadinanza anche detta “società civile” (come se ce ne fosse una incivile), ha tutte le potenzialità che servono alla ripartenza ma ha urgenza di una politica che sia affidabile. Pragmatica. 

Non volenterosamente prigioniera del piccolo cabotaggio, dei calcoli delle botteghe del Nazareno o di altri luoghi, degli egoismi e degli interessi - solo «etica della convenienza» e niente «etica della responsabilità», direbbe Weber - di un sistema che finora, e in questa crisi lo si vede a occhio nudo, ha badato soprattutto a perpetuare se stesso. 

Infliggendo agli italiani uno stallo decisionale e allargando, per il bisogno dell’autoconservazione e per un istinto di autodifesa anche di natura ideologica, il baratro tra il Paese reale e il Paese legale (secondo una formula in uso tempo fa). 

Il risultato è stato quello dell’improduttività. Anche rispetto ad altre nazioni, come la Spagna, o il Portogallo, o la Grecia, che sono riuscite a mettere in campo riforme strutturali, cioè investimenti sociali per la crescita, e invece di adottare una logica passiva si stanno muovendo con una strategia espansiva. 
Qui, niente. O molto poco. E dunque, ecco il paradosso del presidente di Confindustria, Bonomi (al netto della richiesta di continuità nella discontinuità nel solo caso di Gualtieri al Mef) e del leader della Cgil, Landini, che remano dalla stessa parte. Con il segretario del sindacato di sinistra per eccellenza il quale, sia nella crisi sia poco prima della crisi, ha adottato lo stesso linguaggio della Confindustria: «Non mi è chiaro perché, ora che il governo deve riprogettare il Paese, questo governo pensi di poter fare tutto da solo». 

Non si tratta di un semplice dialogo tra produttori: che hanno identiche esigenze ognuno nel proprio campo, più lavoro, più sviluppo, e condividono la preoccupazione per le sorti della nazione.

C’è anche, in questa coincidenza di vedute tra i rappresentanti degli imprenditori e quelli dei lavoratori, la comune consapevolezza che occorre alzare il livello della sfida di fronte al rischio Italia. E che occorre farlo - senza inibizioni e pregiudizi da tempi normali visto che questi non sono tempi normali - tutti insieme e ad ogni livello. Compreso quello politico. 

Del resto la ricostruzione italiana e il boom economico avvennero in un quadro di grande contrapposizione ideale e ideologica (assai più storicamente fondata rispetto a quella attuale, che è personalistica e tribale) ma di sostanziale unità d’intento. Quello dello sviluppo. In cui non solo imprenditori e sindacati, comunque accomunati da un’idea d’Italia, seppero sintonizzarsi sulle esigenze generali ma anche la classe dirigente politica, grazie al suo livello professionale, riuscì ad essere all’altezza delle spinte provenienti dalle parti sociali e da una popolazione che allora credeva nei partiti ma solo perché da essi si vedeva rappresentata e grazie a loro otteneva risposte pratiche per il miglioramento della vita quotidiana e delle aspettative future. 
Oggi tutto questo non c’è più. Ma proprio questo dovrebbe ripetersi. Se imprenditori e lavoratori la pensano alla stessa maniera, è la riprova che c’è stato un cortocircuito. E va sanato. Con il ritorno della politica nella vita reale, fuori dalle alchimie auto-referenziali e dentro una condivisione che sia la più larga possibile e la più ambiziosa che si possa immaginare anche per essere Italia agli occhi del mondo e di noi stessi, e non Italietta da spartizioni e nomine, da gelosie e rendite di posizione con “liderismi” a vanvera, ossessionati dal bisogno di incasso elettorale a breve. 

La fiducia nella politica è il pilastro della tenuta sociale. Se azzeri questa fiducia, invece di rinvigorirla con forti iniezioni di spirito unitario e di aspirazione a una leadership ampia, davvero rappresentativa, professionalmente inattaccabile e tecnicamente al passo con la tempesta in atto, si crea un vulnus tra popolo e potere che non sarà facile da recuperare.

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