di Francesco Grillo
5 Minuti di Lettura
Lunedì 17 Maggio 2021, 00:10

Due anni ci vollero a Goethe per compiere un famoso viaggio in Italia e distillarne le immagini in quello che sarebbe diventato il romanzo nel quale trovarono il proprio mito generazioni di intellettuali. All’inizio dell’Ottocento i letterati europei si abituarono all’idea che viaggiare a Roma, Napoli, Firenze, Venezia fosse un’esperienza di formazione indispensabile e da quell’avanguardia nasce il turismo moderno che ha sempre avuto l’Italia al suo centro.

Proprio quell’idea di essere il punto di arrivo di qualsiasi strada, deve essersi, però, trasformata nel tempo nell’illusione di poter considerare la “grande bellezza” una rendita che nessuno ci avrebbe mai potuto togliere. I numeri dicono, invece, che anche sul turismo l’Italia ha perso progressivamente centralità e che è rimasta ai margini di grandi innovazioni tecnologiche e imprenditoriali che hanno consentito ad altri Paesi di scavalcarci. Con la pandemia, il declino si è trasformato in un tracollo verticale al quale abbiamo risposto con casse integrazioni, ristori, pass vaccinali ed un Piano di Rilancio e Resilienza (Pnrr) che al turismo dedica 6,7 miliardi di euro e qualche buona idea. E, tuttavia, manca ancora la strategia per trasformare la crisi peggiore nella possibilità di ristrutturare un settore industriale al quale è legata la più immediata opportunità di crescita dell’Italia e, in particolar modo, del Mezzogiorno.

Trent’anni fa l’Italia era la prima destinazione turistica del mondo e siamo, ancora, il Paese con il maggior numero di siti Unesco (55) insieme alla Cina che con l’Italia conta sulla storia più densa. Nel 2019, limitandoci anche solo all’Unione Europea, riuscivamo, però, per notti spese nelle strutture recettive, ad essere – secondo Eurostat - dietro non solo alla Francia e alla Spagna, ma anche al Regno Unito e alla Germania (che superiamo se consideriamo solo i visitatori internazionali): del resto, le presenze nei nostri alberghi sono cresciute subito dopo la crisi del 2007 meno che in qualsiasi altro Stato europeo. Eppure siamo, ancora, considerati - nel sondaggio che ogni anno conduce la più grande casa editrice di guide turistiche (la Roughguides) del mondo - il Paese più bello del mondo. Quello che – secondo l’Economist – dovrebbe dominare la cucina globale con un avanzo commerciale potenziale di 168 miliardi di dollari.

Se utilizzassimo il nostro talento e patrimonio con la metà dell’efficienza raggiunta dai francesi o dagli spagnoli potremmo aggiungere due punti al Pil (tranquillizzando i nostri creditori) e cinque punti a tassi di occupazione flebili e, a questo punto, bisogna chiedersi perché non ci riusciamo. Tre sono le scelte necessarie per riuscirci: esse si intravedono nella componente dedicata al “Turismo e Cultura” della missione “digitale” del Pnrr che Mario Draghi e il ministro Garavaglia hanno commentato recentemente al G20, ma vanno rese molto più chiare.
Innanzitutto, di fronte ad un evento che ha portato buona parte dell’offerta turistica nazionale a valutare la liquidazione a prezzi stracciati, è indispensabile un intervento dello Stato che sia intelligente, temporaneo, capace di conservare valore e innescare una ristrutturazione. Sono gli stessi numeri che citavamo prima (e che riprendiamo nel grafico) che dicono che la dimensione media degli alberghi, così come dei ristoranti italiani è molto inferiore a quella dei concorrenti europei.

Ciò si riflette in una capacità molto minore di governare catene di promozione e vendita che sono globali, di innovare il prodotto e dunque in prezzi più bassi. Cassa Depositi e Prestiti ha lanciato da qualche mese il Fondo Nazionale del Turismo (che mobiliterebbe 2 miliardi di euro in 5 anni) e, tuttavia, il coinvolgimento nel capitale del Fondo di operatori internazionali specializzati che rischino il proprio denaro con la Cassa, potrebbe accelerare l’operazione e portarla ad una logica nella quale si valorizzano interi luoghi e non solo immobili.
In secondo luogo, però, vanno fatte delle scelte.

Per non disperdere risorse e realizzare - in tempi persino più brevi di quelli previsti dai cronoprogrammi del Pnrr – la conversione di alcuni dei luoghi simbolo del turismo italiano in modelli che possano guidare una strategia che, necessariamente, durerà qualche decennio.

Va bene accorgersi che abbiamo la necessità di superare gli assembramenti (“Overtourism”), in poche piazze e spiagge dove si sono ammassati i nostri connazionali nelle settimane della più strana estate della nostra storia recente. Se, però, partiamo dalla consapevolezza che il “prodotto” turistico è fatto di un’intera esperienza - che parte dall’aeroporto e arriva alla pulizia delle strade, passando per la puntualità dei treni e la completezza delle informazioni di un menù - si capisce che esso si ricostruisce coinvolgendo comunità intere. Ciò richiede concentrazione di progetti (attualmente il Pnrr ne prevede 400 sulle ville e 4000 sul patrimonio rurale).

Infine i dati. Non si può sperare di far crescere in maniera equilibrata il turismo se non sappiamo chi sono i nostri clienti attuali e potenziali (in questo momento riusciamo a raccoglierne solo la carta d’identità registrata per motivi di sicurezza); quali sono i fattori decisivi nella loro scelta di acquisto e fidelizzazione ad un determinato posto; i canali di comunicazione da usare per raggiungerli; quali sono i nostri concorrenti. Nel Pnrr se ne parla a proposito di un “Hub del turismo digitale”, ma l’esigenza è molto concreta ed è utile chiarire che l’obiettivo è fare dell’informazione, la leva più importante per lo sviluppo di un settore che ha cambiato pelle, mentre noi siamo rimasti a contemplarne una dimensione assolutamente artigianale.

Gli intellettuali tedeschi che fecero dell’Italia un mito, raccontavano di innamorarsi anche di certi languidi squallori. I viaggiatori del ventunesimo secolo si aspettano che la bellezza immortale sia curata con passione. In fondo il turismo del futuro sarà molto più classico di quello che si legge in certe imitazioni improbabili ed è dall’idea del viaggio che l’Italia può costruire un suo ruolo in una società che sarà molto diversa da quella dalla quale siamo usciti quindici mesi fa.
www.thinktank.vision

© RIPRODUZIONE RISERVATA