di Alessandro Campi
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Martedì 27 Luglio 2021, 00:10

La variegata compagine che sostiene in Parlamento il governo presieduto da Mario Draghi è tale anche nell’atteggiamento che i diversi partiti (e i rispettivi leader), quelli maggiori in particolare, stanno tenendo nei suoi confronti dacché esso è nato. Costretti a convivere all’interno di un esecutivo che non risponde ad alcuna “formula politica” (Mattarella dixit), lo stanno facendo sulla base di comportamenti, intenzioni e obiettivi assai diversi tra loro. 
Prendiamo il Pd, che di questo governo s’è sempre considerato l’azionista politico maggiore, non essendolo tuttavia sul piano dei numeri. Sin dal primo momento il segretario Letta s’è dato come scopo quello di presentare Draghi, peraltro con fastidio di quest’ultimo, come l’interprete migliore e al più alto livello della propria linea o visione politica. 

Per essere il Pd il partito di riferimento dell’establishment politico-burocratico nazionale – destinato, per dirla ironicamente, ad essere forza di governo anche contro la propria volontà (e quella degli elettori) – quale uomo migliore dell’ex Presidente della Bce, direttamente imposto dal Capo dello Stato ai partiti riottosi e divisi, per governare la crisi pandemica e, soprattutto, il rilancio economico del Paese coi soldi a palate che verranno dall’Europa? 
E per Draghi quale sponda migliore contro la demagogia populista giallo-verde dell’unico partito italiano, appunto il Pd, a suo agio con l’arte del governare e dotato di senso dello Stato?

Letta ha dunque cercato d’irritare Salvini – alleato de facto assai sgradito – in tutti i modi, con la speranza che finisse per considerarsi un ospite indesiderato e dunque per mollare la presa. Nella sua testa, si sarebbe così tornati, dopo una brevissima parentesi istituzionale all’insegna dell’unità nazionale, ad una sorta di centro-sinistra (Pd e M5S) a guida tecnica, con la destra (Lega e Fd’I) tutta all’opposizione. Ma non ha funzionato.

Ha anche cercato di imporre a Draghi qualche significativa variazione alla sua agenda politica (ius soli, tasse sui grandi patrimoni, stop alla proroga dei licenziamenti, ecc.), ma senza trovare alcuna sponda nel diretto interessato, poco incline al ruolo di mediatore tra le richieste o pretese dei diversi partiti e più propenso a dettare la linea a questi ultimi dopo averli educatamente ascoltati.

Al Pd, per accreditare la sua immagine di unica forza responsabile al governo, non è rimasto che accentuare il proprio lealismo nei confronti del Presidente del Consiglio, sino ad accettarne e condividerne qualunque decisione o scelta. Se Draghi è europeista, il Pd lo è di più. Se Draghi è per il Green pass obbligatorio, il Pd è ancora più rigorista. Insomma, obbedienza cieca e incondizionata, come nelle vecchie vignette di Guareschi.
Diversa la strada scelta invece da Salvini: appoggiare Draghi con convinzione ma anche con continui distinguo tattici, stando attento a non avvicinarsi mai alla soglia della rottura. Insomma, un partito di lotta stando al governo, laddove il Pci berlingueriano – cui si fa risalire la formula del “partito di lotta e di governo” – era semmai un partito di opposizione che aspirava al governo: un’evoluzione interessante, quella introdotta dalla Lega.

Con la partecipazione a questo governo Salvini ha fatto un investimento di medio-lungo periodo. Gli industriali del Nord suoi storici elettori volevano, dopo le convulsioni e le incertezze del governo Conte, autorevolezza, stabilità e ripresa, esattamente quel che Draghi, meglio di altri, poteva garantire. Da qui la scelta pragmatica d’appoggiarlo anche contro il malumore della base leghista più radicale e a costo di subire nell’immediato una perdita nei consensi.

Salvini aveva poi bisogno d’una ripulita alla sua immagine di politico considerato, anche fuori d’Italia, un po’ troppo ambiguo nelle sue amicizie internazionale e spesso inaffidabile negli affari interni. Senza considerare, stante l’acuirsi della concorrenza a destra con la Meloni, peraltro a beneficio di quest’ultima, la possibilità-necessità di un riposizionamento strategico della Lega su posizioni più centriste e moderate, conservatrici e post-populiste, anche per colmare a proprio vantaggio il vuoto politico crescente lasciato da Forza Italia.

Tutte operazioni che richiedono tempo e un clima politico che le favorisca: esattamente ciò che Draghi sta offrendo a Salvini e al suo partito, che se talvolta prende le distanze dal governo lo fa solo per ragioni elettoralistiche e tattiche, non perché abbia una qualche remota voglia di tornare all’opposizione.

Tipico l’atteggiamento salviniano sull’obbligo di certificazione anti-covid: da un lato liscia il pelo alla protesta No vax, dall’altro fa sapere a tutti d’essersi vaccinato. Tipico ancora che sostenga nelle piazze i referendum sulla giustizia mentre in aula appoggia la riforma della giustizia firmata dalla Cartabia. Spregiudicata doppiezza? Forse, ma se paga diventa virtuosa pur restando moralmente discutibile.

Diverso ancora l’atteggiamento verso Draghi del M5S segnato da un malumore reale e dal desiderio strisciante di sfilarsi specie ora che alla sua guida s’è insediato Giuseppe Conte, in cerca di rivalse dopo la sua defenestrazione da Palazzo Chigi.

L’appoggio all’attuale governo, dopo l’implosione di quello giallo-rosso, l’ha voluto personalmente Grillo per estremo realismo: tenersi qualche poltrona gli è parso l’unico modo per evitare che il movimento, dopo due fallimenti consecutivi al governo e ancora senza una guida politica effettiva, si avvitasse in una spirale distruttiva fatta di litigi, spaccature e scissioni.

Ma da subito i grillini hanno capito che nel programma di Draghi nessuno dei loro storici cavalli di battaglia – dal radicalismo ambientalista al giustizialismo, dall’assistenzialismo di Stato spacciato per politica sociale al filo-cinesismo in politica estera – avrebbe trovato grande spazio. Da qui, dopo i malumori sussurrati, le voci crescenti di ministri grillini intenzionati a dimettersi, di possibili sgambetti parlamentari, di chiarimenti che si vorrebbero ultimativi, infine di una possibile uscita dalla maggioranza appena inizierà il semestre bianco quirinalizio. Tutte azioni facili da minacciare, ma non semplici da realizzare, non foss’altro per l’esistenza nel M5S di una robusta ala pragmatica e governista interessata a co-gestire, per quanto Draghi lo consentirà ai diversi ministri, i progetti e gli investimenti miliardari previsti dal Pnrr.

Tre atteggiamenti verso il governo dunque assai diversi: l’appoggio incondizionato, ormai quasi acritico, lettiano; il supporto tattico-strumentale salviniano; il sostegno sofferto, poco convinto ma senza alternative, contiano.

Il problema è cosa arriva di tutto ciò ad un’opinione pubblica che da quando Draghi s’è insediato a Palazzo Chigi – ossessionata com’è sempre più dalle paure legate alla pandemia e alla crisi economica – dei tormenti dei partiti e delle loro tattiche sembra interessarsi sempre meno, mentre per converso sale sempre più, comprensibilmente, l’apprezzamento nei riguardi di Draghi.

Il rischio di questa situazione – uno stato d’emergenza divenuto perpetuo, un esecutivo che si riassume nel nome di chi lo guida – si finisca per considerare normale, e anzi per apprezzare sempre più, l’idea che in democrazia si possa governare bene, cioè nell’interesse di tutti, senza troppo bisogno dei partiti (se non come portatori d’acqua in Parlamento) e delle loro astruse e divisive “formule politiche”. Come se il “draghismo” – il “migliore’”al comando col sostegno di (quasi) tutti – fosse una soluzione politico-istituzionale destinata a durare in eterno e non invece l’occasione, per molti versi unica, che spetta ai partiti cogliere e sfruttare per riprendersi quel ruolo direttivo che col tempo hanno perso e per riconquistare la credibilità perduta. Draghi sta facendo il suo dovere in un momento difficilissimo per l’Italia, ma prima o poi lascerà. Spetta ai partiti approfittare di questa congiuntura per rinnovarsi e cambiare e per evitare di farsi trovare, ancora una volta, impreparati.
 

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