Il ruolo pubblico/ Il diritto della scienza di correggere la rotta

Il ruolo pubblico/ Il diritto della scienza di correggere la rotta

di Elena Cattaneo*
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Giovedì 7 Maggio 2020, 07:31 - Ultimo aggiornamento: 18 Maggio, 14:47
Novemila. Seimila. Settemila. È il numero di pazienti Covid-19 coinvolti in tre studi.
Studi - tra cui uno che porta le firme di Giuseppe Mancia e Giovanni Corrao dell'Università Milano Bicocca volti a verificare se farmaci abitualmente utilizzati per trattare pazienti con problematiche cardiovascolari e di ipertensione potessero esporli a un maggiore rischio di contrarre il virus.

È infatti noto che questi farmaci riducono l'attività della proteina ACE2, ma questo meccanismo porta le nostre cellule a compensare producendone di più. Da quando si è scoperto che l'ACE2 fa anche da porta d'ingresso al virus Sars-Cov-2 nelle cellule polmonari, tra milioni di persone ipertese e con scompenso cardiaco nel mondo, sottoposte a questo tipo di trattamento, è nata una comprensibile preoccupazione: È sicuro continuare ad assumere questi farmaci? Non rischiamo di essere più esposti all'infezione?

La risposta è arrivata la scorsa settimana, dalle pagine di una delle più autorevoli riviste mediche esistenti, il New England Journal of Medicine, che con tre articoli scientifici e un editoriale ha annunciato il risultato più desiderabile: non c'è alcun aumento del rischio di infezione da Sars-CoV2 in pazienti curati con quei farmaci. Con oltre trentamila controlli sull'uomo, queste pubblicazioni consegnano al mondo una triplice certezza, quindi un dato solido e affidabile, fino a una sempre più improbabile prova contraria, qui prossima allo zero.

Ecco a cosa serve e come funziona la scienza: di fronte a un problema nuovo, che nessuno al mondo aveva mai affrontato prima, studia, dibatte, approfondisce, verifica, a volte in pochi mesi arriva a un risultato e, prima di divulgarlo, trova il modo di replicarlo per un numero statisticamente sufficiente di volte. Servono lavoro, tempo, pazienza, impegno, fatica, abnegazione, concentrazione.

A questo oggi si aggiunge una inedita, massiccia e necessaria discesa in campo degli esperti, con messa a disposizione di tutti delle conoscenze, del metodo usato e delle competenze. Ma la lezione che ne traiamo sembra solo parzialmente incoraggiante. I cittadini sono diventati più consapevoli di quanto la scienza può fare nello spiegare i fenomeni che ci circondano, ma sta via via emergendo anche quanto la nostra società sia ancora poco e male informata dei meccanismi e del funzionamento della ricerca scientifica.

Per anni si è bollata la scienza di pensiero unico perché non avrebbe lasciato spazio ad alternative rivoluzionarie in realtà inesistenti e a narrazioni tanto affascinanti e rassicuranti quanto infondate; ora, in epoca Covid, la si accusa di essere divisa perché non offre certezze assolute e univoche, pronte per l'uso. Ma gli scienziati, persone che si mettono in gioco e si criticano reciprocamente su fatti e prove, sono divisi mentre costruiscono conoscenza; lo sono sempre di meno man mano che questa si consolida, pronti a ricredersi purché le nuove posizioni siano fondate su dati almeno altrettanto solidi. E questo processo di produzione di conoscenza per progressiva riduzione dell'incertezza, di battitura di ogni via per poi convergere su quella giusta, non potrà mai avere un interruttore da accendere a piacimento per avere una cura per le malattie che ci spaventano, per poi spegnerlo in tutta fretta quando non c'è più la minaccia di una pandemia che incombe, delegittimando e definanziando di nuovo la ricerca, rea di continuare a scoprire e descrivere la realtà anche quando non va d'accordo con le aspettative del momento.

Alcuni intellettuali, politici e giornalisti sono oggi i primi a rinfacciare pubblicamente agli studiosi, non senza compiacimento, la debolezza di portare avanti ipotesi di ricerca diverse, di riferire di evidenze contrastanti in un ambito nuovo, di essere colti in contraddizione, quando non ad accusarli apertamente per non aver ancora trovato una cura, un vaccino, un incantesimo che ci renda tutti immuni in modo da poter tornare al mondo di ieri. Questa lettura del presente dimentica, tuttavia, che la scienza è progredita nei secoli - donando al mondo, per il beneficio di tutti noi, milioni di scoperte e di conferme - proprio perché per consolidarsi deve resistere ad ogni possibile confutazione sperimentale delle sue scoperte.

In una situazione in cui un minuscolo patogeno tiene in scacco il mondo e nessuno può davvero dire cosa riserva il futuro, è solo sulle basi gettate dalla ricerca scientifica che potremo iniziare a ricostruire la nostra preziosa normalità, ma, proprio perché come pure è stato ricordato - la scienza non è una divinità laica e gli scienziati non sono oracoli, è importante da parte degli studiosi una migliore presa di coscienza del loro ruolo pubblico. In tempi di infodemia, è un dovere per chi conosce e pratica il metodo scientifico chiarire in ogni possibile occasione la differenza tra certezze e probabilità, tra fatti verificati e ipotesi che, per quanto affascinanti, necessitano ancora di prove prima di poter essere prese a ispirazione di politiche pubbliche.

Il dialogo serrato nelle sedi istituzionali, tra scienziati e decisori pubblici, a partire dai parlamenti, è essenziale alla reciproca comprensione ed è il lievito necessario ad una democrazia matura per fronteggiare l'emergenza. Bene ha fatto il Senato ad alimentarlo in questi giorni con un ciclo di audizioni dedicate; molto si può fare ancora in termini di tempestività, efficacia e consuetudine al confronto.
Nell'attesa che si possa arrivare a un vaccino o a terapie efficaci, dalla scienza e dal suo metodo possiamo trarre un ulteriore e importante insegnamento: non temere di cambiare percorso e di adottare le pratiche che si rivelano migliori, anche se le hanno sviluppate altri e non noi, anche se contraddicono quello in cui crediamo, anche se dimostrano che abbiamo avuto torto. È così che la scienza e l'umanità avanzano.

*Docente della Statale di Milano e Senatrice a vita
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