A un anno da Bergamo/L’assuefazione al dolore e l’immagine di quelle bare

A un anno da Bergamo/L’assuefazione al dolore e l’immagine di quelle bare

di Carlo Nordio
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Giovedì 18 Marzo 2021, 00:05

Il dottor Johnson diceva che le catene dell’abitudine sono troppo leggere per essere avvertite, finché non diventano troppo pesanti per essere spezzate. Il geniale scrittore, così attento al significato delle parole da dedicarvi il più bel dizionario della lingua inglese, sapeva che la nostra imperfetta natura è capace di adattarsi a tutto, persino al dolore fisico, quando il mutamento avviene in maniera graduale. 


A distanza di un anno esatto dal lugubre corteo di bare che uscì da Bergamo sugli autocarri dell’esercito, pare che anche noi ci siamo abituati a questa strage giornaliera, che sembra ormai una ripetitiva cronaca di eventi marginali. Così marginali che, mentre il numero dei defunti supera la spaventosa soglia dei centomila, l’allarme suona per qualche isolato decesso attribuito, finora senza nessun elemento probante, all’unica arma in grado di fermare questa strage, i vaccini. Questione, appunto, di assuefazione. Ma andiamo per ordine. 


Se dovessimo compilare un elenco dei mutamenti che la pandemia ha introdotto nella nostra quotidianità, non sapremmo da che parte cominciare. Diamo dunque per noto ed assodato che la limitazione delle relazioni sociali, la didattica a distanza, la chiusura dei ristoranti, la riduzione delle prestazioni ospedaliere, il fallimento di varie attività, l’eterna polemica tra virologi e clinici, la trasformazione  dei passanti in fantasmi mascherati, la ritualità delle abluzioni sanificatrici, la compressione delle energie in aggressività claustrofobiche ecc. siano ormai accettate, o comunque vissute con rassegnata passività. 


Uno degli esempi più significativi è costituito dall’abbandono di alcuni diritti costituzionali, a cominciare da quello di movimento. Un Paese che si era sbranato sulla legittimità di trattenere per pochi giorni a bordo di una nave alcuni immigrati irregolari, ha disciplinatamente subito una generalizzata e rigorosa semidetenzione domiciliare. 
Tutto questo risponde a un’esigenza che si può sintetizzare nella saggia espressione “primum vivere deinde philosophari”. La sopravvivenza precede ogni altra considerazione, prima del companatico bisogna pensare al pane e prima dei merletti bisogna avere le camicie. Nessuna sorpresa dunque se ci siamo abituati a questa sovranità limitata. Non siamo dei pecoroni inebetiti, come non lo è il resto degli europei: siamo semplicemente convinti, a torto o a ragione, che in caso contrario i funerali aumentano, gli ospedali soffocano e anche l’economia collassa. Si fa così perché non c’è alternativa: la necessità non conosce legge, e al resto provvede, appunto, l’abitudine.

Anche a quella dell’elenco dei morti, l’anno scorso rappresentato dalle bare di Bergamo e oggi relegato all’interno dei giornali come un ordinario bollettino atmosferico. 


Ma poiché la stessa nostra imperfetta natura riesce meglio ad addormentare la ragione che frenare l’emotività, ecco l’allarmante notizia sensazionale che abbiamo prima citato: dopo la somministrazione di alcuni milioni di dosi di vaccino si sono verificate alcune morti sospette. Sospette perché la nostra logica – altrettanto imperfetta - tende ad adattarsi al principio empirico del “post hoc propter hoc”: a una successione temporale di fatti si connette un nesso causale di eventi. 


Così l’Europa ha sospeso, pare per poco, la somministrazione di AstraZeneca, e da noi alcune Procure, oltre a sparare la solita raffica di informazioni di garanzia persino ai medici che lo hanno inoculato, hanno sequestrato interi lotti di siero. Un osservatore imparziale potrebbe e dovrebbe fare quello che ha suggerito su queste pagine ieri Luca Ricolfi: analizzare i numeri e ragionarci su. Infatti anche se, nella peggiore delle ipotesi, peraltro improbabile e tutta da dimostrare, i casi di trombosi fossero connessi alla somministrazione del vaccino, avremmo circa un decesso per ogni milione di dosi erogate. 


Si tratta di un rischio enormemente inferiore, tra l’altro, a quello di tanti esami invasivi cui doverosamente ci sottoponiamo, su universale suggerimento dei medici, per prevenire malattie altrimenti incurabili. Niente da fare. L’abitudine ai decessi realmente cagionati dal Covid è stata compensata, come in una sorta di vasi comunicanti, con il timore di letalità presunta del vaccino. Con la conseguenza che la sua somministrazione è stata sospesa.
Resta una domanda. Se un domani risultasse che non vi è alcuna relazione tra questi pochi episodi sospetti e i tanti vaccini somministrati, chi farà i conti delle perdite di vite dovute a questi sequestri e a queste interruzioni? Anche qui soccorrono i numeri.

Centomila vaccini rinviati sono cinquantamila immunizzati in meno. Di questi quanti si ammaleranno? Probabilmente un due per cento, cioè un migliaio. E quanti moriranno? Forse un centinaio. 
E di chi sarà la colpa? Della nostra emotività, delle incertezze dell’Europa o della precipitazione di alcuni nostri magistrati? Per quest’ultima possibilità lasciamo aperta una soluzione: che altri Pm indaghino sui loro colleghi perché, sequestrando i vaccini, hanno commesso il reato di omicidio colposo. Una nemesi paradossale, ma nemmeno tanto remota.

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