di Giuseppe Vegas
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Sabato 24 Dicembre 2022, 00:01 - Ultimo aggiornamento: 25 Dicembre, 00:25

Dopo oltre dieci mesi dall’inizio della guerra in Ucraina può valere la pena di soffermarsi sugli effetti che ha causato nel resto del mondo e, per quanto più direttamente ci riguarda, in Occidente ed in Europa. Non è una valutazione di carattere morale, né ci si riferisce alle inenarrabili sofferenze, alle distruzioni e ai lutti del popolo ucraino, ma proviamo ad esaminare esclusivamente i cambiamenti che ne sono derivati alle nostre vite. Sotto un profilo economico principalmente, ma con conseguenze di natura politica.


Innanzitutto, la guerra porta sempre incertezza: risparmiatori e mercati finanziari non sanno da che parte dirigersi, soprattutto quando governi ed autorità monetarie assumono atteggiamenti ondivaghi, un giorno varando provvedimenti di emergenza e un altro dichiarando che non esiste motivo di preoccupazione. Da una parte i governi invocano la necessità di razionare il consumo di energia e forse anche dei beni alimentari, dall’altra dichiarano di disporre di scorte sufficienti e gli scaffali dei supermercati restano colmi.
Mentre ci si preoccupa degli effetti della scarsità di gas, si interviene sul costo dell’energia per mantenere costante il livello dei consumi. Si indica tra gli obiettivi di politica economica quello del conseguimento di un moderato tasso di inflazione per stabilizzare l’economia e chiudere l’epoca dei tassi a zero - una sorta di egualitarismo finanziario che, non distinguendo il grano dal loglio, ha appiattito la curva della crescita – ma, quando l’inflazione arriva davvero sulla spinta dell’aumento del prezzo dei beni resi carenti dalla guerra, le banche centrali assumono un atteggiamento ipercinetico.

Rincorrono l’aumento dei prezzi con l’incremento dei tassi di riferimento, nella speranza di piegare il fenomeno inflattivo in corso, che non è contenibile fino a quando non saranno rimosse le cause che lo hanno provocato: aumento dei costi di produzione, speculazione e corsa ai beni rifugio. Il tutto con l’effetto di restringere il mercato del credito e quindi di rendere più difficili le iniziative produttive. Coadiuvate in questo nobile intento dalla scelta di aumentare la pressione sulle banche chiedendo loro, in una periodo di moderata ma probabile recessione, di incrementare i coefficienti patrimoniali di riserva e di alleggerire i portafogli di crediti deteriorati, cioè di fare meno credito.


Ma non basta. L’Unione Europea ha varato immediatamente prima della guerra il fondo Next Generation Eu (recepito in Italia come Pnrr), un ambizioso programma finanziato con risorse comuni e finalizzato a modernizzare in tempi rapidi l’economia del Vecchio Continente. Ma, proprio perché gli interventi sono stati definiti dai singoli Paesi prima del conflitto, sarebbe irragionevole ostinarsi a non tener conto delle sue conseguenze, anche in termini di costo delle opere, e non consentire i necessari aggiustamenti.


La riconsiderazione dei rapporti internazionali cui ci ha portato la guerra ha fatto comprendere che la “legge di Ricardo”, forse il principio fondamentale del commercio internazionale, secondo la quale se ciascun Paese si dedica all’attività a cui è più versato ne deriverà un miglioramento del benessere globale, non vale sempre.

Abbiamo compreso a nostre spese che è indispensabile differenziare i fornitori, come dimostra il caso del gas o quello dei chip, o riportare a casa produzioni spostate all’estero, anche se a volte costa di più. Abbiamo anche toccato con mano il fatto che l’aspirazione alla sostenibilità ambientale delle produzioni non può prescindere dal soddisfacimento dei bisogni di base della popolazione, come il cibo o l’energia.


Si sono purtroppo dovuti constatare molti passi indietro nel campo delle libertà di mercato, si è sempre più spesso propugnata ed anche praticata la pubblicizzazione di imprese, più o meno strategiche, ed i salvataggi industriali. Non sono mancati esempi di dirigismo statale in campo economico. I principi-cardine dell’economia di mercato che si regge sulla libera concorrenza sono rimasti in molti casi quasi sospesi, senza provocare veti da Bruxelles. Non solo, non sono mancati casi in cui si è fatto ricorso a pratiche contrarie alle regole fondanti di uno Stato di diritto, come quella di sequestrare beni di privati solo perché cittadini di uno Stato avversario.


Si discute se questi eventi e se il mutamento della visione del mondo che ne è derivata abbiano portato o meno alla fine dell’età della globalizzazione. Mentre è difficile pensare che si possa fare a meno dell’interconnessione dei mercati, non si può non osservare come qualcosa di molto importante sia cambiato e stia prendendo forma un diverso concetto di globalizzazione. Ci si va allontanando da un approccio onnicomprensivo, per orientarsi verso un sistema in cui coesistono sfere di influenza contrapposte e nel quale si confronteranno due o tre blocchi. Per tale via, i vantaggi della globalizzazione saranno condivisi solo dai Paesi amici: da una parte gli Stati Uniti, guidati dal principio del friend shoring, una sorta di mercato tra simili; dall’altra la Cina, con funzioni di coordinamento della Recep, la Regional comprehensive economic partnership, destinata ad aggregare le zone sotto la sua influenza e i non allineati, che rappresentano oltre due miliardi di persone e circa il 30 per cento del Pil mondiale. Ne potrebbe derivare una preoccupante destabilizzazione a livello planetario, nell’ambito della quale l’Europa dovrà scegliere dove collocarsi e che ruolo assumere nel mondo.


In questo quadro, una volta venuti meno i capisaldi culturali ed economici che ne hanno finora assicurato la secolare supremazia, il modello democratico di mercato rischia di vedere minacciata la sua permanente validità. Basterebbe solo tener presente la concezione antidemocratica ed antioccidentale recentemente propugnata, quasi filosoficamente, dal presidente russo Putin. Sarà pertanto d’uopo attrezzarsi al più presto per affrontare le insidie del nuovo mondo.

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