di Paolo Pombeni
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Lunedì 31 Ottobre 2022, 23:58

È arrivata la prima vera prova del governo Meloni: non tanto la nomina dei sottosegretari, dove si è inevitabilmente tenuto conto degli equilibri di coalizione, pur senza esagerare, quanto i primi provvedimenti. Era su questi che si poteva misurare la tenuta o meno della leadership del premier che i suoi alleati erano inclini a condizionare correndo a dettargli una agenda che si sarebbe voluta in grado di portare ad una più complessa articolazione del potere.

Nell’attesa non erano mancate delle preoccupazioni. Le meno gravi riguardavano una certa ansia da prestazioni che spingeva qualche personaggio del nuovo establishment a cercare luci della ribalta ed a cadere nelle tentazioni connesse a ciò, vista la facilità con cui li si poteva attirare su terreni scivolosi se non addirittura infidi. Le più pesanti venivano dalla tendenza al protagonismo dei due vertici dei partiti alleati, cioè Berlusconi e Salvini.

Giorgia Meloni si è mantenuta fedele allo stile che si è scelta come premier: niente dichiarazioni o proclami di qualunque genere. È apparso chiaro, e l’ha ribadito anche nella conferenza stampa di ieri, che è concentrata sul controllo di un quadro economico-finanziario certamente problematico (anche se poi i dati usciti giusto ieri certificano una buona performance del nostro sistema economico), così come su un consolidamento della sua presenza e di quella del nostro Paese in un contesto europeo ed internazionale davvero non semplice. Questo può spiegare anche un certo suo lasciar correre nei confronti di esternazioni che alcuni personaggi, di vario livello e rango, forse avrebbero potuto risparmiarsi o gestire con più oculatezza: come direbbe qualcuno, bisogna pur lasciar sfogare quelli che pensano, ribaltando la famosa invettiva morettiana contro i leader della sinistra, che la cosa più importante sia “dire qualcosa di destra”.

La premier non è apparsa particolarmente interessata a questa impostazione alla moda. Lo si è visto per esempio quando in conferenza stampa presentando la decisione circa l’intervento sull’ergastolo ostativo per chi si è macchiato di gravi reati di mafia e non abbia accettato di collaborare, ha tenuto a sottolineare che il governo nel suo decreto riprendeva quanto la precedente Camera dei Deputati aveva approvato all’unanimità. E sì che quello era un tema squisitamente identitario per FdI. Altrettanto ha di fatto moderato un po’ di decisioni prese su argomenti che erano stati al cuore delle polemiche contro i precedenti governi: sul Covid ha abolito alcune restrizioni, ma ha lasciato l’obbligo di mascherine per situazioni particolari e se ha ammesso il reintegro del personale sanitario no vax sospeso, lo ha giustificato sulla base delle carenze di medici ed infermieri, carenze che sono sotto gli occhi di tutti (poi che la norma in sé sia un bel po’ ambigua è un altro paio di maniche).

Come dicevamo, il lavoro di Berlusconi e di Salvini non ha seguito questa impostazione prudente. Il primo si è lasciato andare ad una dichiarazione, fra il resto neppure dovuta per qualche ragione, secondo la quale si deve sospendere l’invio di armi all’Ucraina per spingerla alla pace.

Anche a prescindere dall’ovvia constatazione che così la si lascerebbe in balia dell’imperialismo di Putin, si tratta di una posizione che mette in difficoltà il nostro Paese sia a livello atlantico che a livello europeo. E pensare che la politica estera è stata affidata a chi era considerato in un certo senso il vice di Berlusconi al vertice di FI.

Quanto a Salvini il suo impulso a cedere alla demagogia è irrefrenabile, ma ora viene esercitato cercando di accreditare l’impressione che la determinazione della politica governativa sia nelle sue mani. Certo è quanto aveva già fatto al tempo in cui era vicepremier nel Conte I: gli aveva portato un momentaneo successo elettorale alle Europee, ma il bilancio finale era stato piuttosto fallimentare. 

Ora ci riprova, ma senza avere quella pseudo legittimazione di cui godette nella precedente esperienza, quando il premier era un neofita, senza alcuna credibilità elettorale, totalmente dipendente dai suoi due vice. Chiunque è in grado di percepire che Meloni è in tutt’altra posizione, sia come esperienza parlamentare e politica, sia come radicamento elettorale che è più del triplo di quello della Lega.

Eppure l’ex Capitano convoca vertici, annuncia interventi, attribuisce a sé progetti che rientrerebbero nel più generale quadro del programma di coalizione, non senza torcerli a propria immagine. 
Sono per lo più argomenti delicati, ma a volte anche questioni di scarsissimo peso. Insistere su argomenti come lo scostamento di bilancio, la flat tax, una generosa riforma del sistema pensionistico non giova certo a spianare la strada a Meloni che deve andare a Bruxelles a vedere di negoziare un sostegno alle difficoltà del nostro sistema finanziario. Se appena si informa un poco, Salvini verrà a sapere che coloro che sono poco sensibili all’idea di aiutare il nostro Paese, magari per favorire il proprio, sono pronti a mettere sul tavolo il velleitarismo di quelle politiche per tagliarci le possibilità di trovare spazio.

Quando poi ci si butta su faccende marginali come il superamento notevole del limite per l’uso del contante non si tiene neppure conto che, come mostra un recente sondaggio, si sta parlando di un argomento che sta proprio all’ultimo posto nelle preoccupazioni degli italiani.

Il governo che ora entra nel pieno della sua attività non ha solo una navigazione non semplice da affrontare, ma è anche, per ragioni di contesto, non sostituibile se non con il passaggio traumatico per uno scioglimento più che anticipato della legislatura. È una prospettiva che qualsiasi persona di buon senso vede con grande preoccupazione. Non significa certo che allora non si deve, come si diceva una volta, disturbare il manovratore. Significa che puntare a sabotarlo per farlo finire fuori strada è una tattica senza senso che porta tutti ad essere vittime dell’incidente che si è voluto provocare. Già successo, non val la pena di riprovarci.

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