di Mario Ajello
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Venerdì 9 Luglio 2021, 00:52

Era già caduta, per Gianni Alemanno, l’accusa di associazione mafiosa quando questa aggravante venne meno per l’intero complesso del «mondo di mezzo», per usare la terminologia dell’inchiesta che ha terremotato Roma, portandola nel mondo sotto il segno infamante di Mafia Capitale. Ora viene meno per l’ex sindaco anche l’accusa di corruzione, con la Cassazione che annulla la condanna a sei anni decisa dal tribunale d’appello. Ed è una vicenda, questa di un castello di accuse che si sfarina, che non può non far pensare oltre che alle sofferenze personali di chi ci incappa al sistema della giustizia che non funziona. 

Siamo all’ennesima smentita di un assunto accusatorio per il quale Roma, equiparata al peggio del peggio della criminalità mondiale, messa in cima alla classifica di mafiosità e non soltanto a quella dell’odioso malaffare a sua volta infestante e terribile, ha subito un danno d’immagine enorme. Finendo, anche oltre le proprie responsabilità, nella polvere e nel discredito generale. Da cui non sarà facile risalire. Ma si deve. E questa sentenza della Cassazione può valere come un aiuto. O comunque come un invito a una nuova consapevolezza su come a volte gli impianti accusatori vengano meno alla prova dei vari gradi di giudizio.

La vicenda Alemanno, come altre, come troppe, racconta di quanto sia importante - per ridurre le distorsioni, per rispettare le garanzie, per non esporre al pubblico ludibrio le persone e rovinare loro la vita in processi che poi finiscono nel nulla e non c’è risarcimento che possa ripagare la sofferenza umana - la riforma del processo penale. Sulla quale finalmente il governo sta lavorando. E forse non c’è riforma più urgente di questa, per la vita dei cittadini. Perché dal tempo di Mani Pulite a quello di Mafia Capitale sono troppi i casi di ridimensionamento e di annullamento delle accuse.

Troppe le ingiustizie patite da chi, prima infangato, poi è uscito immune dalla gogna senza grandi scuse che oltretutto valgono quel che valgono. 

È un sistema, quello della giustizia, che va rivisto senza furori, con lucidità, con civiltà, recuperando il valore profondo del diritto e del rispetto delle libertà contro i furori e i teoremi. Non servono crociate anti-giudici, per carità. Occorre uno spirito finalmente costruttivo per uscire da una situazione gravissima che per quanto riguarda l’Italia la Commissione Ue sulla giustizia ha appena sintetizzato così: processi lentissimi, e ancora oggi sono necessari 400 giorni per la soluzione di cause civili, commerciali, amministrative e di altro tipo, in primo grado, oltre 500 giorni per l’appello e oltre 1300 giorni per completare il terzo grado.

Non solo. L’Italia è quintultima, secondo la Ue, per quanto riguarda l’indipendenza di tribunali e giudici nella percezione pubblica. Il caso Alemanno prima mafioso, poi corrotto e ora niente più (resta solo l’accusa di traffico d’influenze), i sette anni di sofferenza che egli ha patito, la vergogna pubblica e la carriera rovinata, rientrano dunque in un panorama italiano diventato sempre più inguardabile agli occhi di tutti. Con in più un’aggravante. Se la vicenda dell’ex sindaco si è andata via via sgonfiando nei travagliati passaggi in tribunale, resta ancora troppo forte per la città di Roma una cattiva fama evidentemente esagerate dagli errori giudiziari. E a questo punto soltanto una buona politica, e un rinnovato impegno amministrativo per la Capitale chiunque sarà al Campidoglio, potranno ridare l’onore a una comunità che lo merita.

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