Il presenzialismo dei megalomani in questa società dell’incertezza

Il presenzialismo dei megalomani in questa società dell’incertezza

di Rossano Buccioni
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Martedì 6 Aprile 2021, 18:39 - Ultimo aggiornamento: 28 Aprile, 20:28

Viviamo nell’epoca della megalomania, in cui il riconoscimento sociale si inabissa nella dismisura del disagio esistenziale, spesso convertendo l’ovvietà del limite in scontata occasione di provocazione e di insulto. Uomini politici, star della tv e del web, esponenti di nuove culture e sub-musicali compongono la variegata nomenclatura dell’eccesso strumentale nella gestione delle relazioni, nel trionfo delle logiche dell’io-ruolo che esprimono alla perfezione le ambivalenze di un’epoca che “impone” troppa libertà. Criticato o tollerato il narcisismo che signoreggia sulla scena pubblica sembra ispirato dagli ovvi corollari della ricerca di ammirazione che seppellisce i dispositivi socio-culturali della colpa sostituendoli con l’economia psichica della visibilità.

Si tratta di costruzioni sociali della relazionalità ispirate da un individualismo esasperato che pone insistentemente l’accento sui repertori espressivi di un sé che, sapendosi fragile, preferisce rifugiarsi nella propria autocelebrazione, tenendo a bada le ghigliottine dell’inadeguatezza e confidando su like o follower per propagare una notorietà immotivata quanto amplificata dall’autoreferenza dei meccanismi virali. Il prezzo che si paga alla grancassa magalomaniaca consiste nella con-fusione tra tutto ciò che è privato e pubblico, con il palcoscenico mediatico che incoraggia gli individui a rivelare tutto di sé in quella che il sociologo Paolo Bordoni ha definito “intimità pubblica”, una contorsione del decoro e della rappresentazione di sé all’insegna del politically uncorrect. La separazione progressiva del sociale (azione) dallo psichico (esperienza), pone l’individuo atomizzato alla costante ricerca di gloria a buon mercato, con il criterio paradossale della “originalità per tutti” che trasforma ogni giorno in una stucchevole rassegna di aspiranti numeri uno, la cui bramosia di novità risulta inferiore solo alla disillusione determinata dal rapido spegnimento dello spasmodico spettacolo di sé.

Quando il bisogno di immedesimazione delle folle solitarie si sazia e le luci della ribalta puntano altrove, una reazione di indifferenza cancella dalle scene il luccichio della momentanea divinizzazione e l’esclusione che ne deriva, elemosina al presenzialismo nuova luce, cedendo alla curiosità più morbosa l’antica capacità di dare corpo al sogno. Dalle ribalte mediatiche alle minute circostanze quotidiane, l’auto-celebrazione dilaga nei discorsi pubblici – di recente anche tra importanti medici - ed in quelli privati, innescando continue occasioni per incidenti psichici che incrinano le possibilità di intesa dei parlanti, dato che lo scambio comunicativo sembra ispirarsi ad un inno al proprio sé. Ognuno di noi deve affrontare un lungo processo di costruzione della propria soggettività che passa attraverso la comprensione di chi siamo e cosa vogliamo.

Sempre più spesso questa comprensione è distorta e ricerca spinte compensative nell’ambito relazionale, dando vita a teatri dell’io dove poter accettare di essere dispensati dalla “ferita dell’altro”, cioè l’esposizione all’altrui costruzione della realtà capace di contaminare anche il nostro percorso maturativo.

Incapace di osservarmi da dentro, mi valuto solo attraverso lo sguardo sociale che proietta su di me input generali ed astratti, capaci di imprimermi una adesione incondizionata ai loro imperativi. “Il mio orologio è preciso, dice esattamente quanto sono ricco”, canta Sfera Ebbasta (convitato di pietra nella tragica serata di Corinaldo).

Falangi di giovani trapper ingioiellati - caricature di una realtà che non riescono a rappresentare artisticamente perché fagocitati al suo servizio, costretti a celebrare in una grottesca tautologia la violenza della dimensione materiale che mutano in elisir estetico per i loro fans - cantano per un tu indefinito “che potremmo essere tutti noi, gli altri che quei soldi e la fama non li hanno” (G. Caminito), lodando inutilmente l’esistente che li riduce a primi cerimonieri della ricchezza come asfissiante misura del valore individuale. E’ da questa tautologia che si struttura uno dei parametri della nuova iconocrazia megalomane, non la distanza sociale che istituiva l’immedesimazione più estasiata con l’idolo, ma la sua prossimità digitale, porta girevole tra mercato e mito, luna nel pozzo dell’uomo senza qualità.

Nella dominanza economica che omogeneizza i bisogni e rende schiavi del godimento, quando il “motore interno” – il desiderio – sembra malfunzionante, si fa ricorso ad un “motore esterno”- un coach, uno psicologo, un mito Trash – tramite una “adesione cosciente che prevede che sia io a farmi guidare da lui”. La mitomania si nutre di quella che molti sociologi hanno definito “fabbrica dell’inadeguatezza”, cioè un sistema sociale in cui gli individui che vivono al suo interno sviluppano la consapevolezza di dover migliorare costantemente le proprie prestazioni. Alla ricerca del personale accesso al Nirvana dell’adeguatezza sociale, milioni di fans la implorano di fronte alle vetrine mitomani della società di massa dove le star del web e della tv amano condividere on line gli effetti del completo superamento tra privato e pubblico. Lo psicoanalista Luigi Zoja scriveva che “continuiamo ad avere bisogno di adorare qualcuno, ma il posto di Dio è preso dall’uomo e dalle sue opere. Insieme sono elevate a modello e scopo per gli altri uomini. L’uomo ideale è trasfigurato, divinizzato. Di conseguenza non è una vista: è una visione”. Questo è l’ambiguo ed efficientissimo dispositivo che lega la compulsione magalomane al suo pubblico fidelizzato. 

* Sociologo della devianza e del mutamento sociale

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