Lo svuotamento della memoria fa spazio alla banalità del male

Lo svuotamento della memoria fa spazio alla banalità del male

di Rossano Buccioni
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Martedì 19 Novembre 2019, 10:55
In diverse occasioni il Corriere Adriatico ha dato notizia di iniziative volte a contrastare l’odio in rete, anche se questo fenomeno dilagante di recente sembra aver registrato un salto di qualità con la vicenda della senatrice a vita Liliana Segre cui è stata assicurata una scorta da parte dell’Arma dei Carabinieri, a motivo della media di 200 insulti al giorno che a quasi 80 anni dalla deportazione ad Auschwitz, ripropongono sui social lo spettro della più violenta intolleranza.
L’Osservatorio Italiano sui diritti ha realizzato una “Mappa dell’intolleranza”, sostenendo che l’odio contro i migranti quest’anno ha registrato un +15,1% rispetto al 2018 - sul totale dei tweet che li riguardano, quelli di odio sono ben il 66,7% - mentre l’intolleranza contro gli ebrei, quasi inesistente fino al 2018, ha fatto registrare un balzo del +6,4%. L’odio può esser letto come forma cieca di difesa psichica che si esprime attaccando aspetti fondamentali dell’umanità altrui. Si sostiene da più parti che se questo accade, lo si deve allo svuotamento della memoria sociale, con le violenze attuali che si compiono con modalità quasi analoghe agli anni ’30 del secolo scorso, specialmente per alcune condizioni sociali di sfondo, come il distacco ed il disinteresse collettivo verso persone perseguitate o in profondo stato di deprivazione. Mai come nell’ultimo periodo il contesto sociale ha proposto episodi di intolleranza e violenza verso categorie di persone che tornano ad essere bersaglio di pregiudizi diffusi ed atteggiamenti di disprezzo. Il conflitto sociale figlio del disagio diffuso e dell’ambiguità che permea di piccoli/grandi crimini di coscienza una vita quotidiana consumata dalla precarietà, offre una polarizzazione di visioni della realtà che si alimentano nei pregiudizi ormai radicati come elementi culturali. Nel suo libro sull’Olocausto, Zigmunt Bauman – andando oltre la rappresentazione ufficializzata della colpa tedesca – proponeva una interessante versione incentrata sul fatto che ciò che successe nei campi di sterminio non dovesse venir rappresentato come una sorta di malattia sociale dello spirito europeo che ancora ci lascia sgomenti, ma fosse da intendere come un elemento strutturale legato alla normale condizione della società europea. Le concause che portarono alla Shoà furono razionalizzazione, tecnicizzazione e burocratizzazione spinta dei rapporti sociali, un progetto colossale che derivò i suoi terribili effetti dal profondo sconvolgimento sociale determinato dalla modernizzazione - e dall’angoscia che produsse – unitamente all’ingegneria sociale legata al destino storico del moderno. Alla luce delle tesi di Bauman è possibile leggere il ritorno dell’antisemitismo come dimostrazione della bontà del suo impianto analitico. Infatti, se in luogo della tecnicizzazione macchinica della metà del ‘900, poniamo la tecnicizzazione globale a base informatica di oggi, otteniamo un quadro sociale diverso che produce di fatto le stesse forme d’odio. Addirittura vi è chi sostiene che non sia in atto solo una nuova tecnicizzazione della vita sociale, ma il passaggio definitivo ad una condizione tecno-umana in cui la posta in palio sarà la definitiva trasformazione dell’uomo, ormai unico responsabile del suo destino. La pax economica europea degli ultimi 70 anni ha prodotto un simbionte – lo European way of life – chiaramente in crisi, non tanto per le alterne vicende del mercato del lavoro ed il conseguente blocco dell’ascensore sociale, ma soprattutto perché le strategie di neutralizzazione del conflitto (personale e collettivo) come inclusione, mobilità sociale e riconoscimento di diritti, sono state sostituite da altre che al contrario lo potenziano: quantified self, umanità modulare, dittatura delle apparenze. Allora, nell’odio anti-ebraico di oggi non vale tanto la logica buoni/cattivi, ma quella che prevede il ripetersi stereotipo a danno di certe categorie sociali e religiose di forme di odio che – come argomenta magistralmente lo psichiatra Luigi Zoja - attestano semplicemente il fatto che ciò che ci fa orrore di noi, siamo soliti proiettarlo su di un nemico esterno che iniziamo a perseguitare. L’horror vacui di questo nostro tempo è il saperci agli sgoccioli di una condizione umana che sta diventando evidentemente dopo-umana. L’emozione di disprezzo viene espressa in situazioni sociali che prevedono modalità di disapprovazione verso comportamenti opposti a regole morali radicate in convenzioni sociali; tali atteggiamenti evocherebbero una valutazione morale del comportamento altrui. L’odio sarebbe un’emozione sociale che si attiva quando il suo obiettivo di tutela pubblica di un valore è minacciato. Oggi però accade il contrario, dato che sempre più spesso il bersaglio dell’offesa (verso immigrati, ebrei o disabili), non è tanto un valore cui ricondurre l’agire ed il sentire, ma è un individuo ed il suo corpo come luogo di umanità, ridicolizzato o umiliato attraverso la deformazione, la mortificazione e l’aggressione verbale. Gli elementi sociologici alla base di un comportamento violento sono la sensazione di appartenere ad un gruppo e la percezione di essere legittimati nel manifestare intenzioni ostili. I processi socio-tecnici attivi nel web - che spesso radicalizzano tali comportamenti - sono l’effetto filter bubble (chi fruisce di contenuti violenti riceve altri contenuti violenti, grazie ad algoritmi di personalizzazione), l’omofilia, regola social per cui un violento cercherà persone violente e l’effetto “spirale del silenzio”, in base al quale se in molti la pensano come me, io mi sentirò autorizzato ad esprimere apertamente la mia intolleranza. Oltre alla sua banalità, la storia ci dimostra l’umile tenacia del male.

*Sociologo della devianza e del mutamento sociale
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