Le trasformazioni della vergogna nel turnover delle emozioni sociali

Le trasformazioni della vergogna nel turnover delle emozioni sociali

di Rossano Buccioni
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Martedì 12 Novembre 2019, 01:30
Dal sito web del Corriere Adriatico, emerge uno scenario a dir poco inquietante per quanto riguarda truffe e raggiri nella nostra regione (basti pensare al costante incremento delle truffe agli anziani, con ben 54 casi al giorno verificatisi nelle Marche nel 2018). Spesso le truffe sono determinate dall’accettazione personale di strutture sociali di comportamento tra cui il principio di autorità (se qualcuno possiede un’autorità riconosciuta dai gruppi sociali, allora saremo più disposti a fare quello che ci chiede) o il criterio della riprova sociale, la cui efficacia venne dimostrata dallo psicologo sociale Solomon Asch con un famoso esperimento che, nel lontano 1951, attestava il poco lusinghiero “effetto gregge”, cioè la chiara propensione a seguire decisioni altrui in condizioni di incertezza. Disonestà ed inganno fanno il resto, sullo sfondo socialmente ambiguo della compromissione di sentimenti pro-sociali come onore e vergogna. Il legame che vincola la vittima al malfattore, ci svela il labirinto antropologico della menzogna. Un conto è dire il falso perché si ignora il vero ed un conto è dire il falso conoscendo la verità: in entrambe le fattispecie emerge la falsità, ma nel primo caso ci troviamo in presenza di uno sbaglio, mentre nel secondo emerge la menzogna vera e propria. Chi dice il falso in buona fede ignora elementi centrali della situazione e non dice una menzogna sostanzialmente perché non sa di cosa parla. Chi dice una menzogna invece sa bene dove si trova il vero e si arma di strumenti retorici sofisticati per rendere verosimile il falso. E’ qui la radice di ogni truffa. Sentiamo spesso affermazioni come «non c’è più vergogna», specialmente quando gravi fatti di cronaca - lesivi della dignità della persona - colpiscono la nostra sensibilità. In realtà la vergogna, come altre importanti emozioni sociali, non si è eclissata, ma considerevolmente trasformata, seguendo l’evoluzione dei contesti storico-sociali. La persona, subendo l’espansione delle dinamiche agire/esperire, osserva come il quadro morale che situava la vergogna dentro architetture psichiche di tipo ascrittivo legate alla famiglia ed al censo, viri su obiettivi contenuti nell’involucro soggettivo delle competenze e delle prestazioni. Allora, la vergogna oggi si esprime in condizioni assai più materiali, come quando offriamo una cattiva immagine di noi, mancando quella approvazione/ammirazione che non ha nulla a che vedere con l’immediata corrispondenza al tessuto etico del sentire e dell’agire, ma con i codici rappresentativi della società dello spettacolo. Come sostiene lo psichiatra Gustavo Pietropolli Charmet, nella nostra vita «alla caduta dell’etica condivisa ha fatto seguito l’enfasi sull’estetica, sul potere della seduzione e sull’esibizione spudorata di doti spesso inesistenti». L’onestà è una qualità che esigiamo dagli altri perché è garanzia di relazioni basate sulla fiducia ed avvertiamo il bisogno di sapere che la persona anonima che ci troviamo davanti o quella che amiamo, è sincera ed onesta nei nostri confronti. Con il passaggio epocale dalle culture comunitarie alle strutture sociali complesse, si sono moltiplicati i vincoli dell’agire che hanno lo scopo di rendere sufficientemente prevedibili i comportamenti delle persone, ma la menzogna, il raggiro e la truffa, per i motivi di cui sopra restano sempre in agguato. Molti sociologi sostengono che la vergogna sia la più sociale delle emozioni, un sentimento che essendo connaturato alla relazione, rivela pienamente la nostra autentica natura. Se il sentimento della vergogna è interessato da profonde trasformazioni, esso diventerà un indicatore complesso delle mutazioni del nostro rapporto con l’altro. Denotando tutte le emozioni una matrice sociale, la vergogna la evidenzierà maggiormente perché si attiva in relazione ad un altro generalizzato rispetto al quale conformiamo i nostri comportamenti. Formandosi sempre rispetto all’esistenza dell’altro, non sarà difficile notare come uno degli elementi qualificanti l’atmosfera emotivo-cognitiva della cultura contemporanea, sia proprio la trasformazione dell’altro da fine a mezzo. Il bioeticista Sandro Spinsanti affermava che addirittura la stessa infermità spesso è vissuta con senso di colpa da parte dei malati, come incapacità personale di adesione a modelli di vita figli di una codifica esistenziale basata sulla dittatura della felicità (Happycracy). Accade spesso che ci si vergogni di situazioni per cui non dovremmo affatto vergognarci, dato che non dipende soltanto da noi l’essere fragili ed esposti al vaglio sociale delle nostre competenze. Attivandosi questa colossale transizione interna dei sentimenti sociali, ci capita di vergognarci di ciò di cui non dovremmo e non ci vergogniamo di vissuti umanamente assai discutibili. Sapendo di vivere nella civiltà del rischio, da un lato siamo incoraggiati ad affrancarci da ogni responsabilità - non avvertendo il peso delle nostre azioni - e dall’altro, sappiamo di non essere responsabilizzati a sufficienza circa le nostre fragilità. Il sentimento della vergogna, quello che sopraggiunge dopo lo scavo del senso di colpa, scaturisce dal lavorio di riflessione sulle azioni da parte del nostro io etico, nel tentativo di mantenere aperta la strada della significativa relazione con l’altro da sé. Ove l’altro sia vissuto come impedimento alla nostra realizzazione, sarà facile leggere nell’individualismo, nella transizione emozionale privata e pubblica e nelle tante forme di de-umanizzazione dei rapporti sociali, altrettante strategie per un’affermazione personale che non lascerà spazio alla vergogna come controllo dell’immediata corrispondenza del sentire individuale a quello collettivo.

*Sociologo della devianza e del mutamento sociale
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