Già da tempo assistiamo al fenomeno per cui molti prodotti non sono più acquistati grazie alla specificità che il marchio di fabbrica assicura, ma semplicemente in quanto commodity, ossia beni standard facilmente disponibili sui mercati. La globalizzazione delle attività favorisce la condivisione su scala globale di competenze e risorse, con il risultato di far perdere ai prodotti il connotato di unicità agli occhi del consumatore. E questo vale non solo per il prodotto, esito finale del processo di produzione, ma anche per la tecnologia di produzione che, quando diventa commodity, costringe l’impresa a trasferire o cessare la produzione. Sta accadendo lo stesso per il capitale umano? No, ovviamente. Il fattore umano ad alta scolarizzazione è l’elemento distintivo nelle produzioni, e i paesi fanno del tutto per accaparrarselo.
Così si spiegano le iniziative di paesi europei che varano piani di accoglienza di stranieri con elevata formazione o la ricerca di giovani talenti fatta, secondo uno studio di un think tank americano, tra le generazioni di giovani africani. Soluzioni certamente razionali, ma non a somma zero, in quanto risolvono un problema creandone un altro ancora più serio altrove. La mobilità del capitale umano deriva dal desiderio legittimo di darsi sfide nuove e ambiziose, di aspirare alla crescita professionale e a standard di lavoro coerenti con il profilo formativo. Ma il deflusso unidirezionale, che emerge quando in un’area esistono deboli occasioni di impiego e scarse opportunità di crescita, è indice di carenze strutturali e di mancate opportunità. Segnala livelli di offerta non in linea con quelli della domanda, o non sufficienti a trattenere le persone formate e convincerle a disporre in loco delle loro capacità.
Lavori recenti hanno messo in evidenza come siano ormai molti i giovani che ogni anno abbandonano i luoghi di residenza per cercare occasioni di lavoro e crescita all’estero. E non per la formazione, tratto indispensabile del curriculum dei nuovi professionisti, ma per la ricerca di nuove opportunità. Il deflusso sistematico e consistente, quale si osserva ormai da anni anche nella nostra regione, è rilevante non solo perché genera un mancato ritorno dell’investimento, ma soprattutto perché toglie al sistema locale persone animate da propensione al cambiamento, attitudine al rischio e capacità professionali.
Alcuni di questi asset, però, saranno presto una commodity: nuove tecnologie, idee e brevetti, finanza per la crescita e servizi consulenziali di livello avanzato, già disponibili sui mercati internazionali. Altri, invece, sono più difficili da reperire: proattività, capacità di fare buona ricerca, spirito commerciale e imprenditoriale, attenzione al lavoro in team e capacità di motivare e finalizzare il lavoro della squadra. Molte delle politiche industriali adottate nel nostro paese hanno trattato la risorsa individuale ad alto potenziale come mero criterio aggiuntivo per l’ammissibilità dell’investimento. Altre hanno guardato solo all’idea imprenditoriale e alla startup, dimenticando il ruolo della organizzazione corporate.
Altre, certamente ottime, hanno mirato a rafforzare il capitale umano nei percorsi di formazione post-universitaria, seppur con una parziale finalizzazione progettuale. Forse c’è spazio per completare questa finalizzazione e sperimentare iniziative nelle quali la proattività del giovane professionista diventi il punto focale dell’intervento, non una componente ancillare. Un fattore al quale condizionare le agevolazioni all’investimento, la finanza e i servizi avanzati, e non viceversa. Per evitare che anche esso diventi presto una commodity.
*Professore ordinario
di Economia Applicata
presso l’Università Politecnica
delle Marche
Facoltà di Economia “G. Fuà
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