J.P.Industries, una crisi che è partita da lontano

J.P.Industries, una crisi
che è partita da lontano

di Donato Iacobucci
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Mercoledì 23 Ottobre 2019, 10:30 - Ultimo aggiornamento: 25 Ottobre, 12:48
Nelle ultime settimane è tornato l’allarme per la sorte dei dipendenti della J.P. Industries di Fabriano, la società che nel 2011 ha rilevato dall’amministrazione straordinaria il ramo di attività degli elettrodomestici bianchi della ex Antonio Merloni, comprendente tre stabilimenti produttivi e 700 dipendenti. La società ha chiuso il bilancio 2018 con un fatturato di 13 milioni di euro, in calo dai 18 del 2017 e dai 25 del 2016. La società ha accumulato perdite per oltre 12 milioni di euro negli ultimi 5 anni; ciò ha determinato una pesante crisi finanziaria con conseguente richiesta di concordato in bianco presentata al tribunale di Ancona nel luglio scorso. Nel frattempo, ai dipendenti è stata prorogata fino a fine anno la cassa integrazione straordinaria, rinnovata ininterrottamente dal 2008. La J.P.Industries aveva acquistato le attività nel settore degli elettrodomestici bianchi della ex Antonio Merloni per 13 milioni di euro. Subito dopo l’operazione otto banche creditrici della ex Antonio Merloni avevano chiesto l’annullamento della vendita per incongruità del prezzo di cessione. Il ricorso insisteva in particolare sulla sottovalutazione del valore dei tre stabilimenti produttivi acquisiti dalla J.P.Industries. La controversia si è conclusa nel novembre 2015 con la sentenza di terzo grado della corte di cassazione che ha ribaltato i precedenti giudizi e giudicato congruo il prezzo di acquisto da parte della J.P.Industries. Nel frattempo le vendite hanno oscillato intorno ai 25 milioni di euro e la società accumulava ingenti perdite. Si tratta, infatti, di un volume di attività decisamente inferiore alla capacità produttiva. Secondo la relazione presentata dai commissari straordinari gli stabilimenti della ex Antonio Merloni risultavano sottoutilizzati con oltre 2.000 dipendenti. Risultavano a maggiore ragione sottoutilizzati con i 700 riassunti dalla J.P.Industries. Gli stessi commissari hanno sottolineato che per essere efficienti in questo settore occorre un volume di vendite di almeno 200mila euro per dipendente. Questo implica che la J.P.Industries avrebbe dovuto sviluppare vendite per almeno 140 milioni di euro e disporre di un capitale investito all’incirca della stessa entità. In diverse dichiarazioni pubbliche la J.P.Industries ha sostenuto di voler avviare una produzione di elettrodomestici di alta gamma per la quale prevede investimenti per circa 30 milioni di euro, in gran parte destinati allo sviluppo di nuovi prodotti. Per tali investimenti la società ha più volte lamentato la mancanza di sostegno da parte di banche e istituzioni. Le banche sono state le maggiori imputate dell’indisponibilità a sostenere gli investimenti, visto anche il precedente ricorso contro la cessione. Per le istituzioni il principale imputato è Invitalia per l’indisponibilità a fornire le risorse previste nel contratto di programma per Fabriano. Per utilizzare tali risorse occorrerebbero, però, finanziamenti privati che la J.P.Industries non sembra in grado di mobilitare. Oltre a ciò, sembra evidente che le necessità di investimento per il rilancio delle attività della ex Antonio Merloni sono decisamente più elevate di quelle ipotizzate dalla J.P.Industries. Nella relazione dei commissari straordinari al Mise si sostiene che i prodotti della ex Antonio Merloni non erano più adeguati alle esigenze del mercato. In queste condizioni, e tenuto conto della capacità produttiva acquisita, il rilancio dell’attività avrebbe richiesto investimenti nell’ordine delle centinaia piuttosto che delle decine di milioni di euro. Con risultati per nulla scontati. Proprio per la natura degli investimenti e per l’elevato grado di rischio è impensabile che tali investimenti siano sostenuti attraverso il credito bancario. Occorre un investitore disposto a rischiare. C’è da augurarsi che nei prossimi mesi si trovi una soluzione positiva. Comunque finirà non si potrà certo dire che la crisi fosse inaspettata. La vicenda è, infatti, emblematica del modo di affrontare le crisi aziendali nel nostro paese: si propongono soluzioni che già dall’inizio hanno scarsa possibilità di essere risolutive e si va avanti accollando i costi ai lavoratori e alla collettività.

*Docente di Economia dell’Università Politecnica delle Marche
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