La lezione di Schumpeter applicata alle crisi aziendali

La lezione di Schumpeter applicata alle crisi aziendali

di Donato Iacobucci
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Mercoledì 9 Giugno 2021, 18:56

La vicenda di Alitalia, aperta da oltre un ventennio e ancora non risolta, è emblematica del modo con il quale non si dovrebbero affrontare le crisi aziendali. Poiché nei prossimi anni è probabile che situazioni simili diventeranno sempre più frequenti è utile evitare di ripetere gli errori fin qui commessi. Errori che hanno determinato un rilevante impiego di denaro pubblico senza ottenere i risultati attesi. Secondo le ultime stime aggiornate dal Sole 24 Ore, dall’inizio della crisi lo stato italiano attraverso varie forme ha speso oltre 10 miliardi di euro nel tentativo di rivitalizzare la società. Nello stesso periodo il mercato del trasporto passeggeri in Italia e in Europa è più che raddoppiato.

I dipendenti Alitalia avrebbero facilmente trovato altre occasioni di impiego nello stesso settore se non si fosse pervicacemente continuato a voler tenere in vita la compagnia. Con il risultato che l’ennesima riorganizzazione prevede di spendere altri 3 miliardi per sostenere una società fortemente ridimensionata nella flotta e negli organici e che con molta probabilità, malgrado questo ridimensionamento, non riuscirà a sostenersi autonomamente. Il caso Alitalia ha delle peculiarità: sia legate al settore nel quale opera sia al particolare legame che la compagnia ha avuto con la politica. Non è un caso che i vari provvedimenti di ricapitalizzazione o di concessione di prestiti sono passati in parlamento con maggioranze anche più larghe di quella che sostiene l’attuale governo. A parte queste peculiarità vi sono aspetti della vicenda Alitalia che sono tipici del modo con il quale nel nostro paese sono generalmente affrontate le crisi aziendali, in particolare quelle delle grandi imprese.

L’obiettivo di questi interventi è quello di salvaguardare i posti di lavoro a rischio partendo dal presupposto che la crisi sia superabile e che un adeguato ‘piano industriale’ sia in grado di rimettere far ritornare competitiva la società. Questo approccio è valido solo in una minoranza di casi e lo sarà sempre meno in futuro. Esso è il frutto di un atteggiamento culturale che trascura due importanti aspetti del funzionamento di un’economia di mercato: la concorrenza e l’innovazione.

La concorrenza, cioè la possibilità per un’impresa di contendere le posizioni di altre imprese è alla base del funzionamento di un’economia di mercato e ne costituisce il presupposto. L’innovazione, vero motore dell’economia e della società, ha come inevitabile conseguenza un processo di “distruzione creatrice” (espressione coniata dall’economista Joseph Schumpeter), consistente nel fatto che l’introduzione di innovazioni da parte di un’impresa è destinata a spiazzarne altre; quelle che non sono in grado di tenere il passo in termini di efficienza e capacità innovativa.

Occorre prendere atto che nella fisiologia di un’economia di mercato le imprese, piccole o grandi che siano, sono soggette ad un ciclo di vita che può essere più meno lungo ma che è inevitabilmente destinato all’alternanza di fasi di sviluppo e di crisi, in qualche caso irreversibile. Il modo migliore per attenuare i possibili effetti sociali di queste crisi non è quello di opporvisi cercando di congelare la situazione; con conseguente sperpero di denaro pubblico e prolungamento della situazione di precarietà dei lavoratori coinvolti. L’intervento pubblico dovrebbe avere come obiettivo principale la salvaguardia dei lavoratori e non dei posti di lavoro da essi occupati.

A questo scopo, accanto agli interventi di sostegno al reddito andrebbero posti in essere interventi altrettanto robusti ed efficaci per la formazione e l’accompagnamento verso nuovi impieghi. La transizione digitale ed ecologica determinerà un’accelerazione nell’introduzione di innovazione e, di conseguenza, un aumento delle crisi aziendali. Verso le quali occorrerà cambiare radicalmente approccio; favorendo, piuttosto che ostacolando, la mobilità dei lavoratori tra un’impresa e l’altra e sostenendo il cambio di impiego dei lavoratori. In questa prospettiva le crisi aziendali possono diventare un’occasione per aumentarne la qualificazione e l’occupabilità dei lavoratori e non solo un problema di incerta e difficile soluzione.

* Docente di Economia  alla Politecnica delle Marche e coord. Fondazione Merloni

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