Il Corriere Adriatico ha riportato la notizia dell’intervento dei carabinieri che hanno identificato un folto gruppo di giovani (diversi di loro minorenni), che si esibivano ripetutamente in evoluzioni mozzafiato su moto e scooter. Il luogo scelto per gareggiare sfidandosi a tutta velocità era il parcheggio del cimitero di Tavernelle (Ancona), indecorosamente trasformato in una pista motociclistica. Di norma, le adiacenze di un cimitero sono “zone di rispetto”, con ciò intendendo un comportamento nobile da assicurare a luoghi deputati a richiamare valori “sensibili”, all’interno di un processo storico che li vede interessati da trasformazioni che ne incrociano altre, ancora più profonde, riguardanti il mutato senso del morire nell’età secolare. Nonostante le trasformazioni del suo significato, il termine “rispetto”, ha ancora a che fare con l’attenzione per le persone (vive o trapassate), ma in epoche di fine del legame sociale, la stessa “dignità” – intesa come comparazione di valore - se deriva il suo significato dal posizionarsi rispetto a qualcuno, assumerà un connotato di tipo quantitativo nello schema differenziale di misurazione – in più o in meno – dell’essere in base al fare ed all’avere. I defunti escono da questa griglia differenziale ed infatti “mai come oggi gli uomini sono morti così silenziosamente e igienicamente e mai sono stati così soli” (N. Elias). Le camere degli obitori ospedalieri sono luoghi desolati, dove coabitano igienismo e religiosità “fai da te”, dominati da una incuria strisciante che non rispetta la dignità di chi resta né la tragedia di chi non c’è più, ma solo le logiche di uno sbrigativo attraversamento di un “non senso sociale”, per il quale non si richiedono particolari risorse psichiche, essendo sufficiente un disimpegno parziale dalle normali attività lavorative. L’elaborazione della perdita dovrebbe richiedere un impegno emozionale ben diverso, che rimandiamo anteponendogli il banale riempimento empirico del senso di vuoto che investe il morire nell’epoca del disincanto. Non si recitano orazioni funebri – anche se il defunto lo avrebbe desiderato – ma si critica l’Asur per gli orari di accesso; non si piange la scomparsa di una persona che ha abitato la nostra vita, ma si commentano le probabili inadempienze mediche, mantenendo costantemente sul piano oggettuale un evento che reclama un potente attraversamento simbolico che siamo ormai incapaci di compiere. La “solitudine del morente” si amalgama alla nostra inadempienza affettiva che lascia i sentimenti orfani di una elaborazione e ci blinda in una solitudine grave e grottesca, che più tentiamo di rimuovere, più si acuisce. Disarmando le parole del ricordo – ormai si parla di “funerali karaoke” - e rimuovendo il calco emotivo che manteneva al defunto il suo posto nel nostro mondo, la minima occorrenza - anche tecnica - riesce a calamitare la frivola partecipazione alla serietà del momento, dato che il lutto è un sentimento che impone l’amalgama dei diversi modi di sentire che, al contrario, siamo abituati a tenere rigidamente confinati nel perimetro esistenziale di una soggettività egolatrica.
*sociologo della devianza e del mutamento sociale
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