C’è la rimozione del limite nella società dell’apparenza

C’è la rimozione del limite nella società dell’apparenza

di Rossano Buccioni
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Martedì 21 Giugno 2022, 10:10

Il Corriere Adriatico ha riportato la notizia dell’intervento dei carabinieri che hanno identificato un folto gruppo di giovani (diversi di loro minorenni), che si esibivano ripetutamente in evoluzioni mozzafiato su moto e scooter. Il luogo scelto per gareggiare sfidandosi a tutta velocità era il parcheggio del cimitero di Tavernelle (Ancona), indecorosamente trasformato in una pista motociclistica. Di norma, le adiacenze di un cimitero sono “zone di rispetto”, con ciò intendendo un comportamento nobile da assicurare a luoghi deputati a richiamare valori “sensibili”, all’interno di un processo storico che li vede interessati da trasformazioni che ne incrociano altre, ancora più profonde, riguardanti il mutato senso del morire nell’età secolare. Nonostante le trasformazioni del suo significato, il termine “rispetto”, ha ancora a che fare con l’attenzione per le persone (vive o trapassate), ma in epoche di fine del legame sociale, la stessa “dignità” – intesa come comparazione di valore - se deriva il suo significato dal posizionarsi rispetto a qualcuno, assumerà un connotato di tipo quantitativo nello schema differenziale di misurazione – in più o in meno – dell’essere in base al fare ed all’avere. I defunti escono da questa griglia differenziale ed infatti “mai come oggi gli uomini sono morti così silenziosamente e igienicamente e mai sono stati così soli” (N. Elias). Le camere degli obitori ospedalieri sono luoghi desolati, dove coabitano igienismo e religiosità “fai da te”, dominati da una incuria strisciante che non rispetta la dignità di chi resta né la tragedia di chi non c’è più, ma solo le logiche di uno sbrigativo attraversamento di un “non senso sociale”, per il quale non si richiedono particolari risorse psichiche, essendo sufficiente un disimpegno parziale dalle normali attività lavorative. L’elaborazione della perdita dovrebbe richiedere un impegno emozionale ben diverso, che rimandiamo anteponendogli il banale riempimento empirico del senso di vuoto che investe il morire nell’epoca del disincanto. Non si recitano orazioni funebri – anche se il defunto lo avrebbe desiderato – ma si critica l’Asur per gli orari di accesso; non si piange la scomparsa di una persona che ha abitato la nostra vita, ma si commentano le probabili inadempienze mediche, mantenendo costantemente sul piano oggettuale un evento che reclama un potente attraversamento simbolico che siamo ormai incapaci di compiere. La “solitudine del morente” si amalgama alla nostra inadempienza affettiva che lascia i sentimenti orfani di una elaborazione e ci blinda in una solitudine grave e grottesca, che più tentiamo di rimuovere, più si acuisce. Disarmando le parole del ricordo – ormai si parla di “funerali karaoke” - e rimuovendo il calco emotivo che manteneva al defunto il suo posto nel nostro mondo, la minima occorrenza - anche tecnica - riesce a calamitare la frivola partecipazione alla serietà del momento, dato che il lutto è un sentimento che impone l’amalgama dei diversi modi di sentire che, al contrario, siamo abituati a tenere rigidamente confinati nel perimetro esistenziale di una soggettività egolatrica.

Così, l’improvviso arresto del lume di una candela elettrica muove insospettabili slanci riparatori o il sibilo di un condizionatore d’aria offre un riempimento economicistico al gravante silenzio increscioso, garantendo il pretesto per distogliere l’attenzione dall’imbarazzante analfabetismo della pietà di chi come noi, vive in una società dove alle scienze biomediche è assegnato il diritto esclusivo di rispondere alle domande sulle cose ultime, grazie al nichilismo giuridico che le sostiene. Un tempo la morte era il limite, mentre la vita esprimeva la forma. Sant’Agostino insegna che “Incerta omnia, solo mors certa”, riassumendo in quella certezza la determinante rischiosa della vita e la necessità di ricavarne il senso. La modernità transita dall’Ars moriendi ai paradossi della “società post-mortale” (C. Lafontaine) che inizia esattamente dove le frontiere tra il vivere ed il morire si confondono all’interno di potenti apparati tecnici di controllo e pro-determinazione del corpo, operando l’espulsione di ogni senso del limite, unitamente al suo portato rituale e culturale. Del resto, se la nostra è un’esistenza che “procede ormai per proliferazione, più che per generazione” (L. Manicardi), occorre riflettere su questa rottura sistemica, dato che l’idea di morte, e con essa l’idea di tempo debito e di limite, sono venute meno perchè non moriamo più in quanto esseri mortali, ma trapassiamo “a causa di qualcosa”, con il morire che, mutandosi da evento in processo, viene decostruito e negato da una sfera sociale de-ritualizzata. Ormai ridottosi il senso a funzionamento, i ragazzi di Tavernelle probabilmente non credevano di sbagliare muovendosi all’interno di quella logica applicata alle dimensioni della “rimozione funzionante” di cui i mezzi meccanici che utilizzavano esprimono perfettamente lo statuto (desiderio/funzionamento/atto), nei pressi di un cimitero dove giacciono persone sfortunate il cui corpo ha cessato di “funzionare adeguatamente”. Del resto, il fatto è passato alle cronache più per il fastidio dei residenti in zona che per la negazione dello status di “zona di rispetto”. Se la morte è sempre stata addomesticata con riti e simbolizzazioni che ne facevano un momento di riaffermazione della coesione culturale, ora, privata di ogni ritualizzazione capace di mantenerla al cuore del legame sociale, abbandona l’uomo ad una angosciosa solitudine, come quei giovani, soli con i loro motorini, a riempire di rumori il vuoto della ragione e del sentimento.

*sociologo della devianza e del mutamento sociale
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