Il fatalismo nella ragione della mortalità evitabile

Il fatalismo nella ragione della mortalità evitabile

di Rossano Buccioni
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Martedì 21 Gennaio 2020, 10:15
Un team di psicologi ha incontrato gli studenti dell’Istituto alberghiero Einstein-Nebbia di Loreto, frequentato da Mattia Perini, un ragazzo di sedici anni di Civitanova Marche travolto ed ucciso da un treno alla stazione della città mariana, il 9 Gennaio scorso. Nella tragedia di Mattia si è in presenza di un lutto traumatico, il più impegnativo da elaborare. I suoi compagni di classe hanno deposto fiori bianchi sul banco dello sfortunato ragazzo ed i suoi docenti dicono di trovarsi di fronte a domande troppo più grandi di loro. La Procura di Ancona ha aperto un fascicolo, anche se le cause della morte sono certe: Mattia stava attraversando i binari e non si è accorto dell’arrivo del treno perché aveva gli auricolari alle orecchie. Quando il cordoglio diventa supplente dell’argomentazione e tocca al lutto mettere insieme i cocci del senso, il silenzio diventa un dovere, anche se dietro le morti assurde continua a celarsi un verdetto inaccettabile. Sul precipitare ultimativo e scontato della tragedia c’è poco da dire, ma sulla scaturigine penultima, sulle condizioni di sfondo che hanno favorito l’allineamento necessario di condizioni rivelatesi fatali, la parola deve chiedere accredito all’ovvio, nella speranza di non assistere mai più a morti assurde perché interstiziali, decise da circostanze fortuite nella latenza di azioni e stati d’animo che legano un io al noi. Eventi tragici come quello di Loreto non sono infrequenti. I dati della polizia ferroviaria evidenziano un aumento di chi muore o rischia la vita sulle rotaie, soprattutto adolescenti e giovanissimi in diverse parti d’Italia. Auricolari con musica assordante e smartphone in mano che funge da catalizzatore delle facoltà attentive - orientate solo su quello che si sta facendo in quel preciso istante - determinano un completo isolamento dal mondo esterno. Le vittime sono spesso completamente dimentiche del luogo in cui si trovano. Noi elaboriamo le informazioni che ci vengono dall’esterno, ma non possiamo stabilire esattamente come funziona la nostra attenzione né la nostra partecipazione cosciente alla determinazione dei suoi effetti concreti. Si pensi al paradosso di Byung-Chul Han: l’uomo oggi è schiavo di qualcosa che sceglie di fare in modo del tutto volontario, come dirigere l’attenzione in modo molto coinvolgente sugli stimoli costruiti artificialmente che, debordando sulla rete e sui media, lo attraggono in modo irresistibile. Il potere di molti media sociali sta nella loro capacità di distrarre l’attenzione degli utenti attirandoli nei loro spazi virtuali e coinvolgendoli nelle loro attività. E’ un potere che si manifesta nella rinuncia all’uso della componente razionale del sé, nel dedicare risorse cognitive come la memoria, alle ricerche ed alle attività online che favoriscono una mutazione nei modi in cui percepiamo la realtà del mondo. Tutto ciò comporta una perdita cronica di attenzione su cose e fatti nella dimensione factual, con alcuni studiosi che già parlano di “amnesia culturale”. Queste mutazioni delle condizioni di vigilanza, avvengono all’interno di altre trasformazioni antropologiche dettate dalla società complessa. La prima riguarda una sorta di sospensione della dimensione temporale: oggi sembra che il tempo sia qualcosa di sconosciuto, e non solo perché intrinsecamente immateriale, ma perché abbiamo perso il suo significato, sommerso da una compulsione esistenziale di istanti senza passato e senza futuro, velocissimi e pronti a proiettarci velocemente verso un altrove che neppure intuiamo. Addirittura la nostra inclusione prevede che questi istanti sempre più brevi ci prendano e ci costruiscano, altrimenti ci sentiamo esclusi dall’incessante “flusso di flussi” che determina il nostro modo di vivere. La seconda trasformazione riguarda la sospensione del senso di continuità personale. Più viviamo il nostro tempo psico-biologico, più lo sentiamo appartenere ai sincronismi che ci legano agli altri, dentro apparati di governo dei corpi che mutano il tempo da umano a bio-politico. Il nostro non è un tempo fatto per favorire la connessione esistenziale (di senso, di relazione o di progettualità), ma solo una connessione funzionale, fatta da infiniti istanti (più siamo connessi, meno abbiamo consapevolezza delle connessioni realizzate; più rischi evitiamo e più ne corriamo, ecc.). La terza riguarda una sospensione delle logiche di co-determinazione tra sistema psichico e sistema sociale. Il tempo di vita (la sua intensità ed il suo ritmo) sta somigliando a quello antiumano dei sistemi sociali che sono tutto, ma che non siamo noi e non è un altro al quale indirizzare una critica. Il bene-tempo vive allora dentro una logica sociale che non tiene conto delle esigenze personali realizzabili dentro un orizzonte di significato. Ormai sono troppi i livelli di realtà che scavalcano con logiche proprie gli intendimenti razionali del corpo-cervello-mente. La società “orbitale” si è ripresa il tempo che legava Mattia al suo progetto di vita. Il ragazzo è stato tolto dal suo tempo nel pieno dell’esercizio di competenze sociali totali (ascoltava musica, era sul web). Sono i sistemi sociali gli imprenditori del tempo, con le persone che non possiedono più il proprio tempo, perché estromesse dai processi della sua costruzione sociale a causa dell’eccessiva intensificazione dei ritmi socializzativi da sopportare; il ragazzo è finito in un interstizio del tempo sociale che nella sua accelerazione inarrestabile determina sempre più contingenza, più caso/caos. Il sociologo George Dubar direbbe che i giovani «oggi non fanno riposare mai il sé, costretto a fare molti lavori diversi». Su quel binario un’altra giovane vita è stata tolta alla sua idea, l’ennesima farfalla digitale schiantata dalla macchina sociale dell’ovvio e dell’ottuso.

*Sociologo della devianza e del mutamento sociale
 
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