Quel sovraccarico di stimoli dietro alle tragedie stradali

Quel sovraccarico di stimoli dietro alle tragedie stradali

di Rossano Buccioni
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Martedì 14 Gennaio 2020, 11:00
I dati dell’Istat, riferiti al 2018, mostrano come nelle Marche ogni 4 giorni una persona perda la vita in un incidente stradale ed altre 20 rimangano ferite a fronte del dato generale delle morti per incidenti d’auto che in Italia, ci dice che siamo passati dalle 7.000 vittime degli anni ’80 alle 3.000 di oggi. Per analizzare i dati dell’incidentalità stradale di solito si cercano spiegazioni consolatorie (guidava ubriaco o sotto l’effetto di droghe) o genericamente psicologiche (sfogare la rabbia al volante o cadere vittime dell’imprudenza). Questo giornale ha dato grande rilievo alla tragedia di Sonia Farris ed Elisa Rondina, uccise sull’Arceviese dall’auto del 47enne Massimo Renelli, arrestato con l’accusa di duplice omicidio stradale. È stato lo stesso investitore - che guidava in stato di ebrezza - a dare l’allarme, dicendo di “aver investito qualcosa” in un tratto di strada che i residenti definiscono “maledetto”. Quest’ultima affermazione ci fa notare come, nonostante le evidenti responsabilità di chi è coinvolto in un sinistro, spesso la lettura dell’incidentalità ribadisca lo spirito fatalistico dell’evento, considerando i mezzi coinvolti i veri responsabili dell’incidente (auto impazzita, moto killer, ecc.). Non nel caso di cui sopra, ma certamente in molti altri resiste una tendenza ad assolvere le persone coinvolte, dando l’impressione che le cause vere dell’incidente non siano perseguibili, influenzando negativamente il destino di eventuali politiche preventive. Le morti sulla strada fanno rumore perché avvengono nonostante l’avanzamento tecnologico delle dotazioni di sicurezza delle auto. In quello che il sociologo francese Bruno Latour definiva “darwinismo tecnologico”, per un oggetto evolvere è una necessità, non solo per continuare ad occupare uno spazio sociale, ma anche per configurare le competenze dei suoi utilizzatori. Ci sono intere famiglie di oggetti che non hanno resistito (giradischi, fax, segreterie telefoniche), ma fra quelli che meglio hanno espresso il tecnicismo novecentesco, l’automobile mantiene un grande successo, inferiore forse solo al telefono. Se lo smartphone ha rappresentato una sorta di antropomorfizzazione dell’intelligenza artificiale, l’automobile ha vissuto una forte intensificazione sociale delle sue dimensioni di utilizzo. Cresciuta in numeri esponenziali nel secondo dopoguerra, prima ha ridotto i consumi, poi è diventata più sicura con air bag e cinture di sicurezza. L’aumento del comfort offerto dai climatizzatori ha fatto il resto, garantendo agi sconosciuti ad altri mezzi di trasporto. Con impianti hi-fi, radio e lettori, la permanenza alla guida cambia la sua natura e col telefono portatile il suo senso (in auto si potrà anche lavorare). Il tempo trascorso nell’abitacolo da inutile diventa piacevole. I navigatori hanno consentito di guidare in luoghi sconosciuti e l’auto elettrica farà cadere l’ultimo ostracismo, quello ambientalista. Fino agli anni ‘70-‘80 del ‘900 (con le prime strumentazioni elettroniche), l’auto si manteneva sostanzialmente vocata al trasporto - mostrandosi ancora versione emancipata della carrozza – ma ormai è l’abitazione privata ad ispirarne i moderni criteri costruttivi. Se nell’auto c’è ancora un cruscotto – vano che nelle carrozze conteneva biada e crusca per rifocillare il cavallo affamato – l’automobile post-moderna all’altezza dell’accresciuta esigenza di protezione della persona individualizzata, offre comfort tipici dell’ambiente domestico, con dotazioni di benessere che soppiantano l’epica avventurosa del trasporto su strada. Se questo è vero, è lecito ipotizzare che se un tempo l’automobilista reagiva agli impedimenti del traffico con forme compensative, come la maleducazione, la spavalderia o lo sprezzo del pericolo, oggi i rischi al volante derivano anche dalla mutazione dell’auto in status symbol. Questo cambio di identificazione della matrice oggettuale (dal rischio del trasporto al conforto della casa) porta sulla strada l’inconscio personale legato a fantasie di protezione, impunità e continuità dello spazio privato che ci identifica in quello pubblico (la strada). Esonerati ed iper-protetti, spesso cediamo alle lusinghe dei due oggetti-totem della società liquida (molti incidenti sono causati dall’utilizzo del telefono mentre guidiamo). Una prospettiva certamente interessante per affrontare il tema delle dinamiche psico-sociali che alimentano il rischio di incidente, è il tentativo di muoversi in un continuum tra gli estremi dell’incidente del tutto casuale, dell’incidente come conseguenza di un’azione autolesiva deliberata, oppure come effetto di quelle che il sociologo David Le Breton chiama “fughe da se stessi”, realizzate in particolare col crescente ricorso a droghe o alcol. Come per i ragazzi impegnati nel parkour (che eseguono un percorso superando qualsiasi genere di ostacolo) l’ebrezza del salto nel vuoto cerca di perimetrare il “senso di vuoto” interiore che li agita, così l’intensificazione sociale dell’uso dell’automobile cerca di far corrispondere l’estrema mobilità nello spazio alla mobilità psichica tipica dell’individuo contemporaneo. Piuttosto che tragedie della rabbia, quelle occorse di recente sulle nostre strade sembrano tragedie dell’indistinzione e della disattenzione, cioè eventi che hanno alla base l’estrema difficoltà di distinguere (si ricordino le parole che l’investitore dice alla Polizia), spesso determinate da un sovraccarico di stimoli e pressioni da cui si cerca di fuggire. Non è facile stabilire la causa psichica dell’incidente, ma si deve cercare un intervento preventivo su un fenomeno, attraverso il quale già molti adolescenti segnalano un disagio che potrebbe determinare in seguito conseguenze irreparabili.

*Sociologo della devianza e del mutamento sociale
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