L’allarme degli ambientalisti scientifici e i paradossi della società della conoscenza

L’allarme degli ambientalisti scientifici e i paradossi della società della conoscenza

di Rossano Buccioni
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Mercoledì 1 Gennaio 2020, 16:24
Sentiamo spesso ripetere da noti scienziati – recentemente anche su questo Giornale - che lo sfruttamento intensivo della natura è lo specchio di una umanità che indugia pigramente nelle sue irresponsabili abitudini, espressioni di logiche sociali centrate su modelli di sviluppo ambientalmente insostenibili. Il problema della big science è che i suoi paradigmi vanno in crisi quando si passa dallo studio delle mele che cadono (Newton), a quello delle mele che pensano (sistemi sociali complessi). Alle grida di allarme che si levano è difficile dare risposte univoche, ma appare evidente come non sia più sufficiente opporre conoscenza vera a credenze o suggestioni, anche riconoscendo il ruolo del giornalismo scientifico che ha il compito di informare in modo corretto ed equilibrato, diventando portavoce del mondo della ricerca e divulgatore degli importanti risultati ottenuti in tale ambito. Uno dei dati emersi fin dal primo rapporto su scienza, tecnologia e opinione pubblica in Italia - realizzato da Observa Science in Society ed ispirato al Public Understanding of Science anglosassone - confermava la forte presenza delle due tipologie sociali più critiche nei riguardi della razionalità scientifica, che insieme costituivano oltre il 70% del totale. Nel 2005, ben sette italiani su dieci, esprimevano orientamenti critici su alcuni aspetti centrali dell’organizzazione della ricerca scientifica. Certamente, il fenomeno della sfiducia verso la visione scientifica della realtà va letto alla luce del retroterra storico-filosofico italiano e del ritorno delle ideologie irrazionalistiche, attualmente amplificato dal web. La complessa congerie di atteggiamenti di ostilità verso la scienza - che i filosofi definiscono “critica della scienza”- accompagna fin dalle origini la crescita dei processi di modernizzazione. All’interno di questa controversa vicenda, trovano posto filosofi (Rousseau, Heidegger, Horkheimer, Marcuse, Foucault ecc.) ed avanguardie sociologiche (scuola di Francoforte) che a vario titolo, hanno contribuito a diffondere idee antiscientifiche presso un pubblico piuttosto largo. Tuttavia, oggi operano nuovi e potenti fattori nella logica che, da una informazione completa, cerca di derivare una scelta razionale. Ad es., all’aumentare della conoscenza su una specifica questione, crescerà pure l’esame critico della sua validità, così come a fronte dell’incremento impressionante di conoscenze specialistiche socialmente prodotte, si ridurrà la possibilità di controllo ed utilizzazione da parte del singolo individuo. Il paradosso che emerge ci svela che nella società della conoscenza, a fronte dell’incremento assoluto di acquisizioni scientifiche, diminuisce costantemente la base di conoscenze condivise. Lo stesso processo di specializzazione dimostra che la quantità totale di sapere può crescere di pari passo col permanere di condizioni individuali di ignoranza, soprattutto nell’epoca dei social media. Se nel “deficit model” conoscenza ed ignoranza costituivano gli estremi di un medesimo continuum, adesso osserviamo come, alla crescita della prima, non corrisponda una significativa diminuzione della seconda. Le “mele che pensano” sono evidentemente mosse da dinamiche potenti e difficilmente riconducibili alla lettura razionalistica della realtà. Ne illustreremo tre: lo stereotipo sociale; l’effetto “Dunning” e l’auto-attribuzione di ignoranza. Gli stereotipi hanno origine da un processo di categorizzazione sociale e consistono nell’attribuire alcuni tratti comuni sia ad individui che a processi, introducendo ordine e semplicità dove sono presenti complessità e forte variazione. Lo stereotipo è attivato da una ridotta capacità cognitiva dell’individuo che così incrementa la possibilità di farsi influenzare. L’attivazione degli stereotipi sociali deriva dalla forza di emozioni come ansia, rabbia e frustrazione (oggi assai intense) che interferiscono negativamente con le capacità di giudizio, accrescendo la dipendenza dallo stereotipo che tende a conservarsi a dispetto di evidenze empiriche opposte. Tutto ciò può rafforzare il c.d. “effetto Dunning”, cioè una distorsione cognitiva a causa della quale individui poco esperti in un campo, tendono a sopravvalutare le proprie abilità, auto-valutandosi in modo opposto alla realtà dei fatti. Questa distorsione fu attribuita dagli psicologi David Dunning e Justin Kruger, all’incapacità da parte dei non-esperti in una materia, di riconoscere i propri limiti interpretativi. E qui arriviamo alla terza questione, quella relativa alla rilevazione di ignoranza su fenomeni complessi. Nel contesto della ricerca sociale si è scelto di valutare il fenomeno dell’auto-attribuzione di ignoranza, (l’ignoranza soggettivamente espressa dagli intervistati con un “non so”) come dato significativo di appartenenza e non solo come errore di misurazione. L’individuo definisce sé stesso non solo in termini personali, ma anche in base all’appartenenza ad una specifica categoria sociale e le strategie di auto-definizione testimoniano il suo accordo con un sistema di credenze e norme socialmente stabilito. Nell’epoca dei social media, le dinamiche menzionate risultano rafforzate perché la gente che usa internet da per scontato che tutti siano ugualmente intelligenti e indotti a discutere sapendo che i partecipanti debbano mantenere inalterata la personale opinione. E’ una regola che in pochi adotterebbero nella vita reale, ma che sul web soppianta le norme che abitualmente governano interazioni umanamente significative, aprendo spazi alla cultura della post-verità che rimette in discussione il delicato rapporto tra scienza e democrazia.

*Sociologo della devianza e del mutamento sociale
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