I nuovi modelli di sviluppo buoni solo per le discussioni

I nuovi modelli di sviluppo buoni solo per le discussioni

di Donato Iacobucci
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Mercoledì 15 Gennaio 2020, 17:35
Negli ultimi anni sono diventate sempre più frequenti le riflessioni sui nuovi modelli di sviluppo, sia a livello nazionale sia a livello regionale. La principale motivazione risiede nell’emergere di pressanti sfide ambientali e sociali cui è sempre più urgente dare risposta. A ciò si associa, per l’Italia e per la regione, una deludente performance dell’economia che dura da oltre un decennio. Con notevole semplificazione possiamo individuare due grandi orientamenti. Il primo è meno preoccupato della stagnazione del reddito e mette l’accento sugli aspetti qualitativi dello sviluppo. Il problema non è la crescita del PIL ma la sua composizione in termini di prodotti e servizi; questi ultimi dovrebbero essere quanto più possibile orientati agli obiettivi di sostenibilità ambientale e sociale. In questa prospettiva il modello di sviluppo andrebbe profondamente ripensato sia negli aspetti relativi alla produzione sia, e forse soprattutto, in quelli relativi ai modelli di consumo. Il secondo orientamento è maggiormente preoccupato per l’assenza di crescita del PIL, senza la quale diventa difficile sia garantire gli attuali standard di benessere sociale sia mettere in atto gli interventi necessari a modificare i modelli di produzione e di consumo. Anche questo orientamento, almeno nelle sue versioni più accorte, non nega le esigenze di sostenibilità ambientale e sociale ma mette in guardia sulla fattibilità economica delle stesse; senza crescita non è chiaro dove trovare le risorse necessarie a riorientare il modello di sviluppo. A meno di non farlo attraverso una drastica riduzione dei livelli di consumo; un’opzione che appare politicamente impraticabile. Nel mentre si discute di queste prospettive, la politica industriale nazionale e regionale giocano essenzialmente di rimessa: tamponando le situazioni di crisi, dando sostegno ai settori in difficoltà e introducendo qualche timido intervento verso il nuovo. Mancano le risorse per piani più ambiziosi; e mancano, soprattutto, un quadro di riferimento delle direzioni da intraprendere e la volontà di perseguirle con decisione. Non è un rimprovero al sistema politico nazionale o regionale. La responsabilità è di tutti gli italiani; tanto propensi alla lamentela e alla protesta quanto avversi a qualunque forma di reale cambiamento. Le strutture di rappresentanza, dai partiti alle associazioni di categoria, non possono che assecondare tale avversione. Vale per le riforme nei più svariati ambiti, continuamente annunciate e quasi mai messe in atto, e vale per la politica industriale; più propensa a difendere l’esistente che ad avventurarsi con decisione nel futuro. L’attuale contesto generale sarebbe propizio per un cambio di passo. La nuova commissione UE ha proposto un deciso riorientamento delle politiche industriali verso la sostenibilità ambientale. Si tratta di una prospettiva su cui si potrebbe effettivamente impostare un nuovo modello di sviluppo. Anche questa prospettiva rischia, però, di rimanere sulla carta poiché manca la volontà di investirvi sufficienti risorse. Con un PIL che cresce poco, incrementare le risorse disponibili a livello europeo significa diminuire quelle nazionali. Non sembra che gli stati dell’unione siano disponibili da aumentare il bilancio della UE, fermo all’1% del PIL. In Italia la situazione è ancora più problematica. Con un PIL che non cresce l’incremento delle risorse verso un settore implica necessariamente un taglio in qualche altro ambito. Un’operazione praticamente impossibile nel nostro paese, come dimostrano anche le discussioni sull’ultima finanziaria. Alla fine, la linea su cui si trova l’accordo è sempre quella che comporta le minori modifiche allo status quo. Anche il precedente ‘governo del cambiamento’ ha investito su provvedimenti di carattere assistenziale, quota 100 e reddito di cittadinanza, che ben poco hanno cambiano delle prospettive di sviluppo, salvo un ulteriore peggioramento dei conti pubblici. Verrebbe da pensare che malgrado le diffuse lamentele l’insoddisfazione degli italiani non è tale da indurli a rischiare per significativi cambiamenti. I nuovi modelli di sviluppo rischiano di rimanere nell’ambito delle discussioni.

*Docente di Economia dell’Università Politecnica delle Marche
 
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