Sociologo della devianza e del mutamento sociale

Così la pandemia ha sbilanciato il rapporto tra paura e dominio

di Rossano Buccioni
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Martedì 2 Novembre 2021, 10:30

L’incremento dei contagi, i nuovi focolai nelle case di riposo e la triste conta delle vittime, ci confrontano con l’ipotesi di un nuovo inverno di paure. Sembriamo subire alla lettera il destino di Damocle, cortigiano che lodava esageratamente Dioniso II°, tiranno di Siracusa. Da questi invitato a banchetto, Damocle si accorse che sulla sua testa pendeva una spada legata ad un crine di cavallo; da quel momento la paura sostituì il panegirico, costringendolo a severe meditazioni sulla transitorietà della felicità e della salute, «uno stato che non promette nulla di buono», scriveva il fisiologo francese Claude Bernard verso la fine del XIX° secolo. Prima della pandemia abbondavano celebrazioni enfatiche della globalizzazione, intesa come compimento perfetto della condizione umana: “niente più epidemie, conquiste inaudite, prosperità economica e piena realizzazione della civiltà dei diritti” (A. Prosperi).

Ma lo sfiancante corpo a corpo con il Covid 19 ridiscute drammaticamente le nostre certezze, nella consapevolezza che andiamo esaurendo le risorse del potenziale semantico del nostro sistema sociale (fiducia nei vaccini e loro aspro rifiuto compresi). Con parole fulminanti, lo scrittore Elio Vittorini sostenne che «la paura del peggio è più forte del desiderio del meglio», ed in effetti la società del rischio - da intendersi come decisivo incremento della capacità decisionale del singolo individuo – ci ha insegnato che, pur vivendo nell’epoca storicamente più attenta alle svariate sfumature del concetto di sicurezza, registriamo inesorabilmente il tasso di paura più alto di sempre (sia a livello individuale che collettivo). L’ennesimo paradosso sociale, si direbbe a ragione. Eccone un altro: i successi della medicina hanno permesso di mettere mano al concreto perseguimento del sogno dell’immortalità attraverso la pro-determinazione medica del destino individuale, anche se la visione “morbocentrica” della malattia ci ha costretto ad accettare un’idea di corpo non più immerso nel mondo della vita, ma come organismo composto di parti, permettendo alla malattia di conquistare la ribalta ed alla soggettività umana di uscire di scena. Vogliamo certamente curarci, ma per farlo dobbiamo rinunciare al modo normale di percepirci, dato che non ci sentiamo un insieme di organi, ma una continuità psico-biologica specifica, sulla cui condizione di globalità ed equilibrio la medicina scientifica difficilmente può intervenire.

La ricerca di una vita quotidiana più sicura ha spinto le persone a prendere le distanze dalla soggettività ed il timore di un pensiero che pensa – con il contemporaneo cedimento ad un pensiero che calcola - crea “normopatia”, cioè una vita mentale immersa nel comfort materiale e nella presa in carico emozionale degli oggetti. In tali condizioni, vengono meno le stesse possibilità di elaborazione sociale della paura perché è come se stessimo esaurendo la dotazione di risorse simboliche collettive, tipiche di un’epoca di profonde trasformazioni, sapendo bene di poter difficilmente usufruire di esperienze passate.

A tal proposito, le strategie della memoria sociale, dipendendo dai mezzi di comunicazione disponibili, si trasformano radicalmente nel passaggio dalla scrittura alle tecnologie digitali, sollevando interrogativi sulla stessa utilità della memoria come strategia di orientamento nella condizione tecno-umana. Il paradosso sociale – cui spesso facciamo riferimento - dovrebbe consentirci di andare oltre le teorie della società del rischio, dato che la nostra condizione umana e sociale è inserita in un orizzonte trasformativo che il sociologo Ulrich Beck ha definito “metamorfosi”. Si tratta di un concetto da maneggiare con cura e che resterà a lungo un oggetto estraneo nelle consuetudini metodologiche di tanti osservatori perché sostenere che siamo immersi nella “metamorfosi del mondo” vuol dire che sarà necessario accettare la metamorfosi anche nella nostra visione della realtà ( e di noi stessi).

Quando vediamo il mondo attraverso le rappresentazioni sociali, pensiamo senza riflettere, interrompendo i nostri normali sforzi di interpretazione. Il nostro pensiero esprime una sintesi tra il senso soggettivo nella sua intenzionalità diretta ed il senso oggettivo – colto come senso comune – visto come risultato della progressiva oggettivazione di orizzonti di significato soggettivi. Così, il senso oggettivo può divenire progressivamente a-nomico, apparendo un elemento estraneo alle stesse coscienze che pure l’hanno costruito. La memoria è un processo sociale in base al quale ci possiamo garantire un certo controllo sugli eventi, che verificandosi, non costituiscono più una sorpresa assoluta. Venendo ricordati, potranno essere anticipati e coordinati attraverso una serie coerente di relazioni che consentono di leggere l’ambiente esterno. Il punto centrale di questo processo è la ripetizione, cioè la possibilità di riconoscere nella realtà situazioni già manifestate che si ripetono. Ma la catastrofe pandemica impedisce all’idea di ripetitività di legarsi all’idea di memoria sociale.

Nell’attuale condizione di continua trasformazione, muta anche lo statuto dell’atavico rapporto tra paura e dominio, rivelandosi ormai insufficiente la potente mediazione della conoscenza. In piena epoca barocca, lo scrittore Francisco de Quevedo, argomentò che «la paura inizia ogni sapienza, e chi non ha paura, non può sapere». Negli stessi anni in cui vergava queste righe, il calcolo delle probabilità faceva capolino per contrastare la dismisura dell’umana incapacità di opporsi alla natura ed al fato. In seguito, la società dell’informazione – con i suoi dolorosi paradossi – oscurerà abbondantemente il fascino della sapienza.

* Sociologo della devianza e del mutamento sociale

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