Chi sequestra la nostra attenzione fino ai seggiolini salva bebè

Chi sequestra la nostra attenzione fino ai seggiolini salva bebè

di Rossano Buccioni
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Martedì 29 Ottobre 2019, 10:35 - Ultimo aggiornamento: 3 Novembre, 19:14
È stato recentemente approvato dalla Commissione Trasporti della Camera il disegno di legge che prevede da Marzo 2020 l’obbligo di montare i seggiolini salva bebè. Si tratta di un passaggio importante alla luce dei dati denunciati dal Codacons giacché negli ultimi dieci anni in Italia sono stati otto i bimbi deceduti perché dimenticati in macchina dai loro genitori. Un segnale luminoso ed uno acustico avviseranno della presenza del piccolo in auto quando si spegne la macchina, così da impedire l’abbandono dei bimbi nell’abitacolo. In questi drammatici casi viene messa in crisi la cultura prestazionale multitasking tipica di persone che si credono capaci di fare contemporaneamente molte cose. La gestione di attività in parallelo viene spesso presentata come un modo di vivere completamente nuovo - sollecitato dalle nuove tecnologie - che consentendoci di eseguire più compiti contemporaneamente, concorre a mutare la qualità della nostra attenzione, nonostante i vincoli biologici che comunque impediscono di fare bene più cose allo stesso tempo. Quella che sottende la legge anti-abbandono è una cultura che teme le tragedie della dimenticanza e le debolezze che sperimentiamo soggettivamente, dato che siamo noi a decidere come distribuire le risorse limitate della nostra attenzione. Nel 1890 William James scriveva che l’attenzione è “la presa di possesso da parte della mente, in forma chiara e vivida, di uno solo fra molteplici oggetti o pensieri (…) trascurando alcune cose per concentrarsi efficacemente su altre”. Le tragedie dell’attenzione dimostrano come in alcuni momenti fatali, il bambino dimenticato in auto diventi purtroppo l’elemento trascurabile della situazione. Di solito il miglior modo per ovviare al problema delle limitate capacità attentive è quello di selezionare solo le poche rappresentazioni che in un dato istante per noi risultano importanti. Occorre prendere atto che in certe situazioni e per persone perfettamente normali, recare con sé il proprio bambino in auto, non è l’elemento catalizzatore dell’attenzione. Tra l’altro, occorre distinguere i limiti naturali dell’attenzione che risultano in qualche modo correggibili, da quelli che non potrebbero esserlo, perchè l’averne contezza non servirebbe comunque a risolverli. Il filosofo tedesco di origine coreana Byung-Chul Han, sostiene che le nuove costrizioni cui dobbiamo sottostare nella nostra vita sociale sono in larga parte volontarie, con le dinamiche del condizionamento che allo stesso tempo rappresentano una coazione e l’effetto di una scelta apparentemente libera. Si tratta della “eterogenesi” della nostra stessa libertà (convinti di ottenere scopi stabiliti incappiamo in conseguenze indesiderate), dato che l’uomo medio subisce nella nostra società profonde trasformazioni nelle sue competenze, in particolare quelle previste da una organizzazione del lavoro mirante alla flessibilità. Le guerre per il lavoro sottopongono le persone a limitazioni di autonomia che fanno appello alle risorse della soggettività di chi vi è coinvolto, in modo così intenso da cancellare intelligenza emotiva e competenze affettive. Fare appello alla soggettività vuol dire che ci si impone un modo di agire consistente nell’affermarsi, nel fornire insistentemente le credenziali inclusive di un self-branding riferibile ad un modello di individuo tenuto sempre a dimostrare personalità. La cultura prestazionale sottintesa da ogni scelta lavorativa disegna dunque un concetto di autonomia personale non più calibrato sulla libertà di scelta, ma sulla competizione e la probabilità di esclusione. La competizione scatenata da questo sistema di relazioni svela, oltre alle condizioni di profondo disagio sociale, anche quella di precarietà, concetto che in Europa ormai va molto oltre le difficoltà nella condizione occupazionale. Il concetto ormai non indica la precarietà di qualcosa perchè vi si associano una quantità di significati riferibili alla difficoltà di fare fronte alle continue richieste sociali di ruolo che ci consentono di mantenere i canoni del riconoscimento. Il sociologo Jean-Claude Barbier parla di precarietà nel senso di una condizione esistenziale fluida, sospesa tra salute e malattia, che disegna un versante di dissolvimento delle certezze e di massima apertura alla reversibilità degli orizzonti di vita. In sociologia i processi di quotidianizzazione - produrre delle rappresentazioni che rendono noto l’ignoto, anche grazie a stereotipi e pregiudizi - mostrano un versante collettivo ed uno personale: il primo corrisponde alla cristallizzazione di modi di agire e di pensare; il secondo prevede risposte alle iper-stimolazioni esterne che esacerbano le condotte di individui che già arrancano dietro obblighi di ogni tipo. In un contesto sociale centrato sull’eccesso di stimoli è molto importante capire come funziona l’attenzione, tenendo in considerazione il fatto che i suoi dispositivi sono evoluti in un mondo primitivo, orientati alle richieste dell’ambiente naturale. Le tragiche vicende di cui sopra, evidenziano la difficoltà nella gestione cosciente delle fortissime stimolazioni che colpiscono la nostra attenzione. Costruite da altri uomini per catturarla, spesso in modo opposto alle traiettorie della scelta personale, le tecniche di condizionamento dell’attenzione sono pensate proprio allo scopo di sequestrare la nostra curiosità. Dietro di esse non c’è più la natura, ma altri uomini che cercano di sfruttare le diverse modalità in cui funziona l’attenzione anche tramite potenti immagini artificiali, costringendoci spesso all’evitamento degli stimoli in eccesso o, in taluni casi, alla tragica sospensione della nostra capacità di offrire cura e presenza.

*Sociologo della devianza e del mutamento sociale
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