L’algoritmo indifferente e le tragedie della solitudine

L’algoritmo indifferente e le tragedie della solitudine

di Rossano Buccioni
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Martedì 21 Settembre 2021, 01:30

Una villetta di Macerata custodiva i cadaveri di una coppia di anziani e del figlio, morti da mesi nella solitudine e nell’indifferenza. Nessuno si era accorto del terribile mutarsi della quiete privata in trappola mortale. L’insanguinato vessillo della sorte giganteggiava da mesi sulla solitudine cementata nella sventura insinuatasi nelle tre biografie che apparentemente godevano di una riservatezza fattasi tomba e di una decoro travolto dalla reciproca impossibilità di recarsi soccorso. La tragedia di chi, prima di chiudere gli occhi ha probabilmente dovuto sopportare l’agonia di un congiunto, sperando solo nella brevità della propria. La devastazione di una morte irrituale e nascosta, implacabile e discreta, insinuata nell’incastro sociale fatto per dare vita e relazione e tragicamente mutatosi nella ghigliottina della separatezza. Il poeta Davide Rondoni scriveva che “ se per troppe ore non ho notizie dei miei cari mi preoccupo. Se io sono qualcuno è grazie all’amore che ho per loro e loro per me”. Se nessuno ti cerca il tempo diviene lento: è il tempo della morte contro quello della vita scandito dall’empatia e dalla condivisione, dall’amore che rende vivi gli occhi di qualcuno su di te o della presenza di Dio, a lungo espressa nell’invocazione “che Dio ti guardi!” Se nessuno mi guarda io non mi constato nella dimensione della presenza ed il respiro della mia vita si fa corto perchè non si apre alla possibile ridefinizione di me. In quella villetta di Macerata lo sguardo intra-familiare si è curvato su di se in un lento trapassare dall’empatia più pura ad un intreccio mortale che l’isolamento ha lentamente mutato in asfissia della pietà. La scontata familiarità prossimale è precipitata nella constatazione drammatica del bisogno soverchiante e le poche energie residuavano a fronte dell’enormità del destino che lentamente le spegneva negli occhi dei tre sventurati. Si tratta di tre persone che la società della velocizzazione e delle tecno-relazioni ha mutato in dei nessuno, sottrattisi lentamente dallo sguardo degli altri dato che siamo “qualcuno” non per i soldi o il potere, ma solo perché entriamo nello sguardo di un altro che, non vedendoti, comprende la mancanza che incarni. Se vivi per qualcuno, se rendi viva la fiamma dell’empatia, il tempo si mantiene pieno, nella ricercata corrispondenza di dimensione psichica e realtà sociale. Nel tragico caso in oggetto, non sembra nemmeno aleggiare il sospetto che senza una qualsiasi notizia di me per tre mesi, comunque qualcuno dei miei amici o conoscenti mi avrebbe tolto dal silenzio venendomi a cercare, come se i tre fossero stati travolti da una condizione che, più o meno inconsapevolmente da tempo contribuivano a determinare, nel decreto inappellabile della sorte che sanzionava la morte dei più prossimi alle tre vittime. Si trattava di persone per le quali il potere dell’algoritmo mostrava assoluta indifferenza e difficilmente potevano avere quella specie di foto segnaletica a cui si arriva combinando le informazioni derivanti dalla nostra navigazione online e dalle informazioni che docilmente offriamo, declinando i nostri gusti, le nostre preferenze ed i nostri stili di vita.

La caratteristica della società di massa, è proprio quella di spezzare i legami della socialità e di rinchiudere i suoi membri nel cerchio stregato di un isolamento efficientistico; tipico esempio è la catena di montaggio, nella quale il lavoro è massimamente razionalizzato e le possibilità di relazioni umane fra i lavoratori sono di fatto annientate. Nella società di massa non vi sono più persone, né individui, ma piuttosto non-persone, che si muovono in non-luoghi, assecondando il sortilegio di una specie di incanto alla rovescia. Nessuno ha del tempo da dedicare all’altro; anzi, per parlare riferendoci al caso di Macerata, nessuno ha più l’occasione di accorgersi dell’altro. Se la comunicazione privata è diventata un bene di consumo e l’economia non lavora più seguendo il movimento di merci e monete, bensì controllando i grandi flussi di informazione, un permanente stato di necessità, una malattia od un forzato isolamento sociale ci estromettono facilmente dalla costruzione merceologica che normalmente subiamo. Si tratta di logiche studiate dall’economista Shoshana Zuboff per la quale non veniamo più considerati persone, ma fonti di informazioni, dato che il nostro valore non dipende più da ciò che siamo o da ciò che sappiamo, ma dal valore commerciale del rapporto di informazione cui diamo vita. Del resto, la nostra società è costruita su una “solitudine di massa” con lo spazio pubblico che è sempre meno pubblico e che ci spinge a rifugiarci sempre più spesso nelle nostre separatezze domestiche, trascorrendo molto tempo di fronte ad un computer che ci sottrae alla compagnia “irritante” di un nostro simile. Lo spazio dell’interazione umana si trasforma spesso in un vero e proprio armamentario della tenuta a distanza dell’altro che, da tecnologico, si fa prossemico ed alla fine linguistico, con la sottrazione di competenze simboliche a chi ci sta vicino e l’esibita abolizione dello spazio in cui proponiamo terzi che esorbitano la logica della situazione vissuta. Lo stesso stile della comunicazione si fa inumano, con i social network che annullano la riflessione costringendo l’utente a rispondere immediatamente, senza il tempo necessario per pensare alla tutela di una trama comunicativa autenticamente umana. L’effetto è la dispersione mentale e se una delle conseguenze dell’abolizione del pensiero, è l’abolizione della presenza, tragedie come quelle di Macerata trovano una seppur parziale giustificazione.

*Sociologo della devianza e del mutamento sociale

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