L’anniversario del terremoto e l’inerzia della ricostruzione

L’anniversario del terremoto e l’inerzia della ricostruzione

di Rossano Buccioni
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Martedì 30 Agosto 2022, 01:35

Nel sesto anniversario del terremoto del Centro Italia, si è rivissuto il dramma delle vittime, lo sradicamento degli sfollati, la desolazione dei borghi distrutti e del patrimonio culturale perduto. Adattandosi perfettamente alla spettacolarizzazione emergenziale del rapporto rischio/pericolo, il terremoto del Centro Italia – sotto il patrocinio retorico-mediatico della ricostruzione – fu presto eletto problema centrale dell’agenda politica, ma nel tempo è stato messo tra parentesi fino a diventare intricata questione aggiuntiva, incapace di produrre consenso e sempre tra i primi posti nel novero delle inadempienze istituzionali.

La lente di ingrandimento dei media ci ha fatto vivere le operazioni di salvataggio come sforzo eroico, assecondando la retorica della ricostruzione come aggregante collettivo che riusciva a distorcere la reale portata delle mappe emotive coinvolte nelle tragedie moderne, la cui casualità sovente si sposa con gli effetti della neutralizzazione mediatica che tutti subiamo. A distanza di anni, la macchina della ricostruzione è ancora ferma e l’entusiasmo iniziale – frutto avvelenato della notiziabilità, meccanismo che si poteva attivare per qualsiasi altra tragedia – si è trasformato in rassegnazione e senso di abbandono. Si mostrano attivi anche insidiosi fenomeni psico-sociali - come l’effetto spettatore o la diffusione di responsabilità - che si realizzano tra istituzioni, mezzi di comunicazione, mondo dello spettacolo e spontaneismo popolare. L’effetto spettatore (bystander effect) fu approfondito per spiegare l’apparente disinteresse nei confronti di un essere umano in difficoltà.

Se poniamo dei soggetti sperimentali soli ad osservare una scena cruenta, entro i primi minuti è assai probabile che cerchino di avvisare qualcuno. Se vi sono più soggetti sperimentali, oppure un singolo soggetto contornato da diversi complici istruiti a fingere disinteresse per la violenza in atto, in un numero considerevole di casi non emergerà nessuna richiesta d’aiuto. Se sostituissimo ai singoli individui del setting sperimentale le Istituzioni italiane, potremmo spiegare il rimpallo di responsabilità, le risibili comparsate in situ e la teatrale ammissione di incapacità che stanno facendo la storia della crisi sociale del cratere sismico. Il resto lo si vede sui volti degli anziani che piangono non solo una dimora distrutta, ma anche la lenta quanto implacabile sparizione della loro generazione nei ricoveri di Stato (Sae), precipitato architettonico di un decoro senza progetto e di una presenza senza condivisione. Ampiamente esercitatosi nell’emergenza pandemica, il controllo disposizionale e verticistico proprio nel terremoto ha raggiunto uno dei suoi picchi di intensità, intervenendo nella catastrofe in modo giustamente immediato, ma senza farsi garante delle condizioni di un progressivo ritorno alla normalità.

Le popolazioni coinvolte lo hanno vissuto come un inutile esercizio di forza, inquietante anticipo di una catena di inadempienze inanellate a danno di persone fiaccate nei loro affetti e nella loro identità. All’interno dei campi le azioni quotidiane dei terremotati erano organizzate e limitate nel tempo da una serie di regolamenti e schemi disciplinari come ovvio risvolto decisionale alla casuale violenza calamitosa. Ma era facile intuirvi gli elementi di un esercizio devotamente pronto quanto paradossalmente facilitato dall’emergenza stessa che, non cambiando mai di passo in vista della ricostruzione, svelava le sue intrinseche debolezze.

L’emergenza ha dunque decretato un disciplinamento unito ad un assistenzialismo obbligante alla base di una gestione paternalistica dei soggetti. L’accettazione di questa sospensione sociale dell’identità di luogo, per la pesantezza della sua emergenzialità, poteva e doveva essere risarcita da un pronto processo di ricostruzione, da interpretare come ritiro della delega statale sulla gestione ordinaria delle relazioni umane con il territorio. Il fatto che in numerosissimi borghi non sia ricostruito l’argine di demarcazione tra natura e cultura, con la vegetazione e la selvaggina che prendono possesso di spazi storicamente mantenuti alla presenza umana, trasformano il controllo e l’imposizione sociale legittimati dall’emergenza in sterili vessazioni senza progettualità. Nella gestione della crisi sismica i diritti vennero riconosciuti alle persone unicamente a partire dalla compromissione del proprio modo di incarnare una sintesi tra natura e cultura, cioè solo a partire dalla dimensione del bisogno assoluto, incapace di tenere fermo il discrimine tra vita politica e vita biologica. La vera ricostruzione infatti è la ri-determinazione delle circostanze socio-culturali che, eliminando la sovranità arbitraria dello stato, rilanciano le trame locali della differenza tra presenza e vuoto, vita e morte, ecc. Tale imposizione - spesso coercitiva – ha finito col favorire un certo rigetto delle decisioni istituzionali da parte delle popolazioni colpite dal sisma e la lunga fase di inerzia che sta segnando la storia di intere aree appenniniche svela che la violenza subita è stata spesso duplice. A fronte di questa situazione di stallo sul fronte politico e decisionale i gruppi umani sono ancora dispersi, dato che nelle micro-comunità la relazione è centrata sulla prossimità, con migliaia di persone che vivevano a pochi metri di distanza e che risultano separate per sempre. Nei paesi che non hanno subito danni ingenti, molti abitanti se ne sono andati ugualmente, con la propria identità di luogo prima offesa dalla politica ed ora tradita anche dal gioco economico. I danni del terremoto sono ormai irreparabili, anche a fronte di una ricostruzione degna di tale nome.

*Sociologo della devianza e del mutamento sociale

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