Lo squillo inopportuno a teatro che scardina un incastro sociale

Lo squillo inopportuno a teatro che scardina un incastro sociale

di Rossano Buccioni
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Martedì 25 Febbraio 2020, 11:00
L’emergenza sanitaria in corso pone la massima attenzione sulla cura della relazione interumana, sovente ridotta a “contatto” riduzione al semplice dato di una duplice presenza, autentico grado zero dell’incontro. Non è un caso che le rassicurazioni medico-scientifiche in tempi di virus, si esercitino nell’ambito di relazioni ambigue dal versante della profilassi, perché di vere e proprie patologie della relazione sono piene le cronache dei giornali, vissuti a metà strada tra sciatteria, ambiguità e piccoli crimini di coscienza dentro i quali fatichiamo a disegnare la corretta espressione delle nostre interazioni nello spazio pubblico. Capita sempre più spesso di ascoltare lo squillo inopportuno di uno smartphone in luoghi dove sarebbe richiesto un suo uso diverso, per il semplice motivo che vi si praticano attività che antepongono l’interesse generale a quello particolare. Su questo Giornale si è scritto della protesta simbolica del Maestro Ezio Bosso che, dirigendo l’Orchestra Filarmonica Marchigiana al Teatro delle Muse di Ancona, di fronte al trillo di un cellulare durante l’esecuzione dell’Ouverture K 620 del Flauto Magico di Mozart, ha interrotto l’esecuzione per alcuni, interminabili, secondi. Questo caso fa emergere alcune questioni generali trattate debolmente anche da esperti commentatori. Tra i sostenitori della scelta di Ezio Bosso ci sarebbe senz’altro Alessandro Manzoni, che nel cap. XXXII dei Promessi Sposi scriveva: “Il buon senso c’era, ma se ne stava nascosto per paura del senso comune”. Il buon senso (l’arte deve educare lo spirito) era certamente rappresentato alle Muse, ma il senso comune (dinamiche sociali globali a base comunicativa) era più forte, perché capace di incalzare lo straordinario con un’imprevedibile scorribanda dell’ordinario. L’immediata sottrazione dall’effetto-ridicolo che Bosso ha operato su sé stesso e sul pubblico, è scattata con l’istantanea percezione di alterità del trillo, in un contesto dove ogni nota doveva aggiungere alla serata una scintilla di rivelazione. Ma si è attivata anche perché il reale - con i suoi orientamenti socio-strutturali - è davvero sé stesso quando si mostra più potente delle nostre intenzioni di metterlo in discussione. Specificando che il concetto di “persona” è un “concetto-gelatina”, come sostengono i francesi, si potrebbe dire che Bosso ha fatto bene a lamentarsi, ma ha ugualmente commesso degli errori prospettici, dato che, proprio comunicando - anche in modo inopportuno - un individuo oggi si mostra particolarmente attivo sul versante sociale del concetto di persona. Infatti, se con tale concetto intendiamo una sovrapposizione quasi perfetta tra sistema sociale e sistema psichico, l’eroe negativo delle Muse stava pur sempre risultando all’altezza delle attese sociali di comportamento che lo riguardavano. Però la suoneria non si è limitata a sottolineare le sue specifiche competenze, finendo per rammentare involontariamente le proprie a tutti gli astanti i quali, bruscamente ridestati dall’idillio, hanno ricevuto sgradita conferma della forza di logiche organizzative generali, contro la cui dominanza, alle Muse come altrove, si cerca spesso conforto con accuratissime sospensioni estetiche. Il concetto di “persona”, ha fatto entrare in contatto elementi artistici ed altri che mai ci si attenderebbe di valorizzare in un concerto. Ezio Bosso ha subito protestato la differenza tra musica e suoneria, sapendo bene che entrambe stanno per qualcosa d’altro: mentre Mozart rimanda al sentimento del sublime, il trillo del cellulare rinviava ad una sfera di azione che non poteva tendere a nessuna elevazione artistica, restando solo la vetrina pubblica di una identità privata. L’immediato fronteggiarsi di due occorrenze incommensurabili, ha fatto scattare il rifiuto come meccanismo di autotutela artistica dalla banalità del quotidiano. Tuttavia, le suonerie che squillano in maniera inopportuna dicono molto altro, ad es. la progressiva abolizione del “dietro le quinte”, con il mescolarsi dello spazio mentale e di quello sociale, o l’incontro/scontro tra temporalità psico-biologica e temporalità sociale che impone l’obbligo di ridurre sempre più i tempi di reazione, in un quadro di impulsività che diviene condizione sociale normale. Tutto questo va letto alla luce delle dinamiche di pubblicizzazione del privato, perché in una società come la nostra dove il consumo – il fratello illegittimo del desiderio – fa delle merci dei vettori identitari da pubblicizzare costantemente, quel che vale per gli oggetti passa anche al comportamento degli uomini. In rapporto al suo mondo, l’individuo non si costruisce più ricevendo materiali per definire la propria identità e sforzandosi di mantenere nel tempo i valori ricevuti. I giochi di ruolo si fanno sempre più piccoli, sono ormai “giochi di faccia” che seguono regole di tipo cerimoniale, non di tipo sostanziale. La premessa di tutto ciò è che noi costruiamo la nostra faccia come un artefatto, non dentro un progetto con alla base l’espressione di una vera e propria interiorità. L’idea di un progressivo abbandono dell’interiorità – necessaria quando si cerca un rapporto con forme artistiche – come polo della mappa esistenziale e luogo dell’unità del molteplice - come direbbe il filosofo e teologo Romano Guardini - è una grande questione del moderno, data l’incapacità di pensare insieme unità del sé e molteplicità delle facce. Spesso le persone si lasciano sorprendere nella loro incapacità di mantenere intatte le separazioni tra interno ed esterno, in una involontarietà occasionale, fortuita quanto incresciosa, che ci fa vergognare per altri perché dentro di noi sentiamo intatta la forza del pudore, che tutelando la nostra intimità, difende la nostra libertà.

*Sociologo della devianza e del mutamento sociale
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