L’impressionante successo della serie coreana Squid Game, la narrazione della storia di un gruppo di persone che rischiano la vita in un gioco mortale di sopravvivenza, con in palio circa 33 milioni di euro, va molto oltre la denuncia delle disparità socio-economiche vigenti in Corea del Sud. Nello show centinaia di persone prendono parte ad una competizione per vincere milioni di dollari sottoponendosi a diverse prove e coloro che perderanno al gioco, verranno eliminati, uccisi, in un labile equilibrio tra metafora e realtà sociale. Uno degli elementi che impressiona maggiormente è l’evidenza che qualunque sia l’organizzazione malvagia che si muove dietro la competizione, potrebbe facilmente convincere centinaia di persone ad assecondarla, se necessario, anche uccidendo a sangue freddo. Il creatore dello spettacolo, lo scrittore Hwang Dong-Hyuk, ha deciso di far vestire tutti i lavoratori con maschere ed abiti identici, uniformandoli proprio rispetto delle regole del gioco come supremo obbligo funzionale. Il contesto scenografico rinvia ai celeberrimi costrutti di “De-individuazione”. Secondo la psicologa sociale Chiara Volpato, diversi fattori favoriscono la de-individuazione, momento-chiave in vista di una diversa costruzione sociale della vittima, della sua corporeità e della sua personalità. In primo luogo l’anonimato che, impedendo al comportamento individuale di essere giudicato (dunque di essere codificato in normale/deviante), rende più probabili deliberazioni di de-umanizzazione. In secondo luogo, la violenza che ne deriva può essere autorizzata da una diminuzione del senso di responsabilità che si determina quando le persone condividono con altri la co-determinazione negativa di una data situazione. Serie tv come Squid Game o film come The Experiment (Paul Scheuring 2010), come si legano all’individualismo contemporaneo ed in che modo i media lavorano nel contesto dell’attuale offerta identitaria? La prima fase dell’individualismo post-bellico cercava di risolvere il problema del rapporto individuo/società attraverso il ruolo sociale, un comportamento più o meno funzionale al sistema ed alle sue logiche che noi interiorizziamo, facciamo nostre, così occupando la rispettiva posizione che consente al sistema di funzionare (mentre a noi sembra di essere soddisfatti nella nostra esigenza di auto-realizzazione). L’interiorizzazione di ciò che tiene insieme il mondo sociale è leggibile nella dialettica tra mezzi e fini e tra esteriorità ed interiorità e nel modello del ruolo come nesso tra l’individuo e la società, il cinema ha svolto un ruolo chiave con l’happy and (americano e non) che da sempre è la riaffermazione della positività del modello proposto, a sostegno del processo di interiorizzazione dei ruoli che tengono insieme la struttura sociale. Questa interiorizzazione diventa improbabile nella misura in cui, a fronte delle troppe pretese dell’io-ruolo diventa sempre più arduo trovare risorse adeguate all’interno della propria dotazione psico-biologica, essendo necessario ricorrere sempre più spesso ad ego-sintonici esterni imposti dalle logiche di quella che lo specialista di dipendenze, dottor Mauro Croce definiva «società additiva».
*Sociologo della devianza e del mutamento sociale