Il successo dello Squid Game e le derive della sopraffazione

Il successo dello Squid Game e le derive della sopraffazione

di Rossano Buccioni
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Martedì 16 Novembre 2021, 10:20

L’impressionante successo della serie coreana Squid Game, la narrazione della storia di un gruppo di persone che rischiano la vita in un gioco mortale di sopravvivenza, con in palio circa 33 milioni di euro, va molto oltre la denuncia delle disparità socio-economiche vigenti in Corea del Sud. Nello show centinaia di persone prendono parte ad una competizione per vincere milioni di dollari sottoponendosi a diverse prove e coloro che perderanno al gioco, verranno eliminati, uccisi, in un labile equilibrio tra metafora e realtà sociale. Uno degli elementi che impressiona maggiormente è l’evidenza che qualunque sia l’organizzazione malvagia che si muove dietro la competizione, potrebbe facilmente convincere centinaia di persone ad assecondarla, se necessario, anche uccidendo a sangue freddo. Il creatore dello spettacolo, lo scrittore Hwang Dong-Hyuk, ha deciso di far vestire tutti i lavoratori con maschere ed abiti identici, uniformandoli proprio rispetto delle regole del gioco come supremo obbligo funzionale. Il contesto scenografico rinvia ai celeberrimi costrutti di “De-individuazione”. Secondo la psicologa sociale Chiara Volpato, diversi fattori favoriscono la de-individuazione, momento-chiave in vista di una diversa costruzione sociale della vittima, della sua corporeità e della sua personalità. In primo luogo l’anonimato che, impedendo al comportamento individuale di essere giudicato (dunque di essere codificato in normale/deviante), rende più probabili deliberazioni di de-umanizzazione. In secondo luogo, la violenza che ne deriva può essere autorizzata da una diminuzione del senso di responsabilità che si determina quando le persone condividono con altri la co-determinazione negativa di una data situazione. Serie tv come Squid Game o film come The Experiment (Paul Scheuring 2010), come si legano all’individualismo contemporaneo ed in che modo i media lavorano nel contesto dell’attuale offerta identitaria? La prima fase dell’individualismo post-bellico cercava di risolvere il problema del rapporto individuo/società attraverso il ruolo sociale, un comportamento più o meno funzionale al sistema ed alle sue logiche che noi interiorizziamo, facciamo nostre, così occupando la rispettiva posizione che consente al sistema di funzionare (mentre a noi sembra di essere soddisfatti nella nostra esigenza di auto-realizzazione). L’interiorizzazione di ciò che tiene insieme il mondo sociale è leggibile nella dialettica tra mezzi e fini e tra esteriorità ed interiorità e nel modello del ruolo come nesso tra l’individuo e la società, il cinema ha svolto un ruolo chiave con l’happy and (americano e non) che da sempre è la riaffermazione della positività del modello proposto, a sostegno del processo di interiorizzazione dei ruoli che tengono insieme la struttura sociale. Questa interiorizzazione diventa improbabile nella misura in cui, a fronte delle troppe pretese dell’io-ruolo diventa sempre più arduo trovare risorse adeguate all’interno della propria dotazione psico-biologica, essendo necessario ricorrere sempre più spesso ad ego-sintonici esterni imposti dalle logiche di quella che lo specialista di dipendenze, dottor Mauro Croce definiva «società additiva».

Segnando spesso un profondo senso di inadeguatezza del progetto di vita personale, l’appartenenza ad un gruppo influirà sul comportamento individuale. Quando le persone rischiano di diventare (o sono già de-individuate), non agiscono in modo irrazionale, ma piuttosto secondo norme gruppali, cioè in modo “ultra-socializzato”, con il gruppo che media la strategia di conversione dell’individuale in attoriale. Che relazione ha tutto ciò con i personaggi di Squid Game? Anche se un singolo lavoratore potesse eccepire circa gli atti brutali intimatigli, difficilmente potrebbe scavalcare le forti norme del gruppo in un ambiente totalmente anonimo, data la cessione di individualità all’economia psichica funzionale di gruppo. A livello massmediologico, se nella reality tv il personaggio mi identificava perché immettendo il suo privato in uno spazio pubblico, inaugurava la cosiddetta “società confessionale” (Z. Bauman), nel reality tv io metto a nudo le dimensioni più private e personali prima relegate in una sfera quasi sacra di intimità. Seguiranno due diversi scenari mass-mediatici: ad una fase di post-nichilismo (successiva al 2011), con la percezione diffusa che lo sviluppo non è più sicuro (ri-militarizzazione del concetto di sicurezza, smilitarizzato dopo la caduta del muro di Berlino), farà seguito l’idea di crisi definitiva delle grandi narrazioni che accompagnava il post-modernismo, rilevate da un’idea di grandi narrazioni aggressive (con forti ripercussioni sulla cultura visuale dei videogame). Nello scenario post-nichilista si imporrà - con fenomeni fin troppo evidenti nell’attuale crisi pandemica - la paura del controllo su base tecnologica all’interno di una costruzione sociale dei corpi del tutto nuova che modula la paura dentro una dialettica che il giurista Stefano Rodotà definiva di “controllo/riappropriazione”. La trama di Squid Game è sintesi realistica di queste diverse fasi perché basata sulla danza macabra di reietti della società, condotti in una sorta di Disneyland paradossale ed obbligati a giocare per vincere un montepremi che aumenta in base alla definitiva eliminazione di altri concorrenti. Si tratta di una sorta paradiso distopico della gamification dove guardiani mascherati e giocatori con divise numerate convivono per diversi giorni, ciecamente dominati da un’entità misteriosa e potente che, in modo insindacabile, stabilisce ciò che accade. Alla lettera, potrebbe essere la società del controllo o la stessa differenziazione funzionale.

*Sociologo della devianza e del mutamento sociale

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