Le persone scomparse che si dimettono dalla corrosiva relazione con il mondo

Le persone scomparse che si dimettono dalla corrosiva relazione con il mondo

di Rossano Buccioni
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Martedì 27 Aprile 2021, 10:25

Negli ultimi cinquant’anni nelle Marche sono scomparse quasi ottocento persone. La soverchiante alleanza tra oblio e mistero, sottrae nel tempo nomi e storie espressive dell’identità della nostra terra. Tra i tanti: Giancarlo Bonaventura (scomparso a Pesaro il 9 gennaio 1978); Rosanna Ghiselli (scomparsa ad Urbino il 25 maggio 2002); Ines Sposetti (scomparsa a Massa Fermana – Fm - il 7 agosto 2015). I media della comunicazione ormai trattano ogni evento come riflesso condizionato di un ovvio schiacciamento sul presente. Il teorico dell’arte Mario Perniola, parlava di un «nuovo regime di storicità caratterizzato da fenomeni percepiti o come traumi o come miracoli, inaccessibili ad una spiegazione razionale», come dimostra la ridondanza dissipativa nell’affrontare l’emergenza pandemica oppure il tragico caso della sparizione della piccola Denise Pipitone e delle sue tante riapparizioni. In quasi mezzo secolo, la differenza tra scomparsi e riapparsi, supera quota60 mila, una fiera assenza scandita dal pendolo emotivo sospeso tra speranza e rassegnazione. La maggioranza dei casi è costituita da allontanamenti volontari, persone che vogliono chiudere con il proprio passato, vittime di dolorose separazioni in contesti psicotici, per demenze senili, condotte suicidarie, ecc. Autentico fenomeno nel fenomeno, ove deliberato l’allontanamento disegna una strategia centrata sull’assenza, recludendo chi resta nel carcere di condizioni contestuali orchestrate ad arte, profittando della sospensione del proprio status sociale. Se chi si eclissa volontariamente flirta con la liberazione, per chi resta c’è solo il vuoto dell’assenza di motivazione, dato che quella volontaria - autentica inversione ad U del processo di socializzazione - è la forma di sparizione che maggiormente sconcerta, libera dalla immediata giustificazione criminogena, tendente allo spietato svelamento della frustrante partecipazione alla fabbrica identitaria che lo scomparso, non ha temuto di smentire, intimandoci dalla sua eclissi pacificata, di fare i conti con quella radicale presa in carico di noi stessi da cui, prudentemente, ci manteniamo alla larga. Il sociologo David Le Breton affrontò la delicata questione, affrescando potentemente l’ambito della sottrazione di sé dall’economia psico-relazionale, in base ad una traiettoria che acuisce il senso di profonda compromissione che la normalità tesse tra l’io ed il noi, tra la parte ed il tutto. La sparizione è metafora della notte e del sogno sospensivo della realtà che si alterna alla coscienza intenzionata del giorno e della relazione. La luce della presenza (sfocata e livida) si inabissa nell’horror vacui della sottrazione, di cui ci si crede responsabili dopo averne mutato lo sconcerto in senso di inadempienza, nella sferzata quotidianità che il trauma associa a quella che M. Heidegger definiva “deiezione”. E’ il fuggire da sé e dalle relazioni più o meno significative che entravano nel “me” (G.H.

Mead), che assume rilievo specifico in chiave sociologica, con casistiche che scoperchiano il vaso di Pandora della strutturazione identitaria e dei costi che dobbiamo pagare per stare dentro le sue deboli quanto scontate ricompense. La sparizione volontaria ci consente di transitare immediatamente dal focus decisionale del protagonista alla trama relazionale che lo concerneva e, da li, ad una dimensione terza, quella del paziente camuffamento di intenzioni, del rischioso gioco dell’auto-rappresentazione pubblica del sé e delle porte girevoli ricavate a danno dei criteri di pertinenza e di logica sociale - praticati prima ed esecrati poi - nelle dinamiche normali di interazione. Spesso travolti dalla “lotteria sociale” – sintesi di quella genetica e dei tanti viaggi di sola andata delle dinamiche di introiezione del rapporto Valori/Norme - molti di noi sentono il bisogno di scavare una via di fuga nel cemento della routine, uno squarcio nella realtà che si ispira al recupero del rimosso, alla restituzione della vita vissuta ad una dimensione onirica che per anni ha covato al di sotto di una rassegnazione prima accettata e poi coraggiosamente capace di attraversare gli incensi dell’inautentico. Nella mente dello scomparso volontario prende forma una drammatica relativizzazione della realtà personale, con l’ascrizione di tutte le persone incontrate ad un progetto irrilevante, esprimendo ognuna una diversa sfumatura di irrilevanza nel relazionarsi, da eliminare senza remore come incrudelita banalità all’origine della sena sociale. L’esistenza ci pesa anche perché la società funzionalmente differenziata esige dalle persone un’affermazione costante da ottenersi attraverso l’obbligata reinvenzione della vita. All’interno delle molteplici espressioni di un’antropologia dell’inadeguatezza, molti di noi sono tentati di abbandonare la presa, di sciogliere le tensioni, ricercando una assenza da sé che renda l’individuo capace di reimpossessarsi di dimensioni altrimenti non attingibili, vinto dall’improvvisa dissolvenza del progetto di vita antecedente. Si va da una fuga nell’alcol, nel gioco, nelle droghe o nella follia ad una sparizione costruita con ogni cautela, nell’accurata cancellazione di ogni traccia, sfidante il buon senso per la drasticità della nuova interpretazione del sé che trascina nel dramma anche coloro che, come comparse, recitavano un ruolo nella vita precedente. L’assenza che si muta in abbandono ed in sparizione, in certi casi diviene metafora della negazione necessaria al ritrovamento del sé autentico ricercando un nuovo inizio che rifiuta quei contesti relazionali sospesi tra vero e verosimile, architettando una trama distorta, cui si dava un contributo passivo solo “per non morire completamente” (A. Artaud).

*Sociologo della devianza e del mutamento sociale

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