Negli ultimi cinquant’anni nelle Marche sono scomparse quasi ottocento persone. La soverchiante alleanza tra oblio e mistero, sottrae nel tempo nomi e storie espressive dell’identità della nostra terra. Tra i tanti: Giancarlo Bonaventura (scomparso a Pesaro il 9 gennaio 1978); Rosanna Ghiselli (scomparsa ad Urbino il 25 maggio 2002); Ines Sposetti (scomparsa a Massa Fermana – Fm - il 7 agosto 2015). I media della comunicazione ormai trattano ogni evento come riflesso condizionato di un ovvio schiacciamento sul presente. Il teorico dell’arte Mario Perniola, parlava di un «nuovo regime di storicità caratterizzato da fenomeni percepiti o come traumi o come miracoli, inaccessibili ad una spiegazione razionale», come dimostra la ridondanza dissipativa nell’affrontare l’emergenza pandemica oppure il tragico caso della sparizione della piccola Denise Pipitone e delle sue tante riapparizioni. In quasi mezzo secolo, la differenza tra scomparsi e riapparsi, supera quota60 mila, una fiera assenza scandita dal pendolo emotivo sospeso tra speranza e rassegnazione. La maggioranza dei casi è costituita da allontanamenti volontari, persone che vogliono chiudere con il proprio passato, vittime di dolorose separazioni in contesti psicotici, per demenze senili, condotte suicidarie, ecc. Autentico fenomeno nel fenomeno, ove deliberato l’allontanamento disegna una strategia centrata sull’assenza, recludendo chi resta nel carcere di condizioni contestuali orchestrate ad arte, profittando della sospensione del proprio status sociale. Se chi si eclissa volontariamente flirta con la liberazione, per chi resta c’è solo il vuoto dell’assenza di motivazione, dato che quella volontaria - autentica inversione ad U del processo di socializzazione - è la forma di sparizione che maggiormente sconcerta, libera dalla immediata giustificazione criminogena, tendente allo spietato svelamento della frustrante partecipazione alla fabbrica identitaria che lo scomparso, non ha temuto di smentire, intimandoci dalla sua eclissi pacificata, di fare i conti con quella radicale presa in carico di noi stessi da cui, prudentemente, ci manteniamo alla larga. Il sociologo David Le Breton affrontò la delicata questione, affrescando potentemente l’ambito della sottrazione di sé dall’economia psico-relazionale, in base ad una traiettoria che acuisce il senso di profonda compromissione che la normalità tesse tra l’io ed il noi, tra la parte ed il tutto. La sparizione è metafora della notte e del sogno sospensivo della realtà che si alterna alla coscienza intenzionata del giorno e della relazione. La luce della presenza (sfocata e livida) si inabissa nell’horror vacui della sottrazione, di cui ci si crede responsabili dopo averne mutato lo sconcerto in senso di inadempienza, nella sferzata quotidianità che il trauma associa a quella che M. Heidegger definiva “deiezione”. E’ il fuggire da sé e dalle relazioni più o meno significative che entravano nel “me” (G.H.
*Sociologo della devianza e del mutamento sociale