Fare i conti con le fragilità e con quella paura di vivere

Fare i conti con le fragilità e con quella paura di vivere

di Rossano Buccioni
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Martedì 26 Gennaio 2021, 18:24 - Ultimo aggiornamento: 18:28

La pandemia ci costringe ogni giorno a fare i conti con le nostre fragilità, la cui consapevolezza - sovente rimossa dalla civiltà della tecnica - ci deriva dal saperci mortali. Le drammatiche conseguenze di tale rimozione emergono anche dalla serie tv sulla Comunità di San Patrignano che ha rinnovato l’interesse per due questioni: l’espandersi della “società additiva” e la specificità del modello comunitario di esistenza che, in quel tipo di società, riesce spesso a recuperare l’individuo. Recuperare a che cosa, alle dinamiche che hanno determinato il suo dramma, oppure ad una dimensione di vita autentica, dato che la comunità impedisce il completo assorbimento della vita umana nella “trama sociale”, impedendo all’individuo di uscire da sé stesso, frammentato in corpo, coscienza ed una serie di comportamenti esplicitamente pretesi dalle sirene d’Ulisse della socializzazione? San Patrignano ha dimostrato la possibilità di costruire l’individuo in modo diverso dalla forma-persona stabilita dalla società. Tutto ciò dà fastidio ancora oggi e le critiche che ancor oggi accompagnano la vita e l’operato di Vincenzo Muccioli, vanno sempre interpretate alla luce di questo quadro di riferimento. Il recupero del tossicodipendente transita anche per quello che è stato definito “effetto città”, da non intendere come riacquisizione di un dimensionamento del sé tarato su competenze esterne, ma come riappropriazione di una auto-appartenenza che mitiga le fragilità del mancato processo di individuazione. Lo psichiatra Massimo Biondi, discutendo degli effetti del distanziamento sociale sulle persone fragili, ha sostenuto la necessita di tenere allenata la loro “intelligenza sociale” che può essere definita come una elevata capacità di agire in situazioni che implicano scambi relazionali tra persone ispirati dal rapido inserimento dell’altro in uno specifico sistema di aspettative di comportamento. Si tratta di un processo più rapido dello stesso pensiero razionale e, nella maggior parte dei casi, avviene al di fuori della consapevolezza di chi lo attua. Se il termine “intelligenza” fa pensare a qualcosa di innato, in realtà le sue varie forme esprimono il risultato dell’interazione tra caratteri biologici e struttura sociale, data l’importanza dell’ambiente socio-culturale in cui si costruisce la storia di un individuo. Nel passaggio dalla comunità alla società (F. Tonnies), cambia l’essenza dell’individuo. L’età moderna costruisce individui particolari, diversi da quelli creati precedentemente, come nel caso di quello impostosi con l’economia mercantile e la libera autodeterminazione dell’io. Per questa nuova forma di individuo, la proprietà non sarà solo un “pro privo” - rivendicare beni a titolo privato - ma sarà anche un “proprius” nel senso di essere/vivere in proprio, sperimentando la separatezza dall’altro. L’individuo diventa un costrutto sociale e dal suo orizzonte di individualità deriverà la “persona”, che permetterà all’individuo di distinguersi da ciò che è collettivo e dagli altri individui.

L’individuo-persona non reca in sé l’imprinting comunitario e la rigida distinzione in più o in meno rispetto agli altri, prenderà il posto dei legami costitutivi la condizione umana. Il singolo individuo mostrerà esigenze dettate dalla sua realizzazione secondo le logiche del contesto sociale che lo trascende, in cui lo stesso individuo si abituerà a vivere come una variabile dipendente. Se nella società si perfeziona la costruzione dell’individuo a partire dalle richieste esterne, l’essere umano diverrà “ambiente” della differenziazione funzionale, con la persona che sarà il risultato di questo processo inarrestabile di adeguamento e di adattamento tra dimensione psico-biologica ed orizzonte sociale. La cosiddetta “società additiva” è fondata esattamente sulla rappresentazione dell’individuo centrata sulla conformazione dell’interiorità sull’esteriorità, dato che l’esterno sociale non cessa di imporre alla dimensione normativa autoriferita dell’individuo gli adeguamenti mutuati dalla sfera di esperienze della flessibilità economica. Non a caso, diversi studiosi dell’addiction evidenziano come, in un modello di società apparentemente basato sulla valorizzazione del soggetto autonomo, unico responsabile del suo destino, questi sia vittima del costante incremento di comportamenti di dipendenza patologica. Ormai si manifestano nuove forme di addiction costruite in assenza di un oggetto concreto, di un qualcosa che entra nel corpo influenzando le relazioni dei soggetti interessati, probabilmente perché oggi il consumatore non si chiede più «di che cosa non sono ancora riuscito ad appropriarmi?» , ma «cosa voglio provare che non ho ancora provato?», assecondando e rinforzando le dinamiche psico-sociali che motivano il consumo di sostanze. Le nuove dipendenze non derivano dall’azione di un oggetto esterno che si insedia facilmente nell’abisso del desiderio o dal fascino maligno di sostanze inebrianti - come nelle classiche espressioni della mitologia tossicomaniaca - dunque non tanto da un disagio “esistenziale” quanto da un mutamento “culturale” in cui nuove dimensioni patologiche si caratterizzano non per eccesso di inibizione, ma per difetto di controllo. Le tecniche di “uncinamento” del neuromarketing suggeriscono di esperienzializzare i prodotti, sciogliendo qualsiasi vincolo materiale/industriale per affidarci ad una economia dell’ esperienza. Ma il disagio sociale ed individuale è crescente, nonostante l’uso di psicofarmaci. Invece, a San Patrignano non si impone alla vita di uscire da sé per assumere forme sociali che le si oppongono. Vincenzo Muccioli lo aveva capito perfettamente soprattutto quando diceva che «i ragazzi drogati non hanno paura di morire, ma hanno paura di vivere».

*Sociologo della devianza e del mutamento sociale

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