Il campione di fronte alla malattia e le attese collettive di guarigione

Il campione di fronte alla malattia e le attese collettive di guarigione

di Rossano Buccioni
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Lunedì 17 Febbraio 2020, 19:14 - Ultimo aggiornamento: 18 Febbraio, 10:35
Lo scorso luglio, in una conferenza stampa, Sinisa Mihajlovic, ex calciatore e allenatore del Bologna, annunciava di essere affetto da leucemia e dopo aver iniziato le terapie, ad appena 44 giorni dall’annuncio e visibilmente provato, si è presentato sulla panchina della sua squadra per condurla nella prima di campionato. L’Organizzazione Mondiale della Sanità organizza il 4 febbraio di ogni anno il World cancer day, mentre domenica 9 febbraio, la Chiesa Cattolica ha celebrato la 28a Giornata mondiale del malato. Il caso Mihajlovic – come altri specialmente nel mondo dello sport – ha mosso sentimenti collettivi che hanno immediatamente arruolato il serbo nella schiera dei tanti eroi e “guerrieri” che da sempre oppongono resistenza al “grande male”. L’oncologo Siddhartha Mukherjee - medico e saggista indiano naturalizzato statunitense - nel suo imponente “L’imperatore del male, una biografia del cancro”, fa notare come esistano importanti aspetti culturali e politici che connotano le varie manifestazioni di questo male, lungo un arco temporale documentato che abbraccia almeno 4.000 anni di storia. Per descrivere i tumori i greci usavano il termine “onkos”, parola assai evocativa che significa “massa” o peso, essendo il cancro propriamente una zavorra contenuta nel nostro genoma, un vero contrappeso biologico alle umane aspirazioni di immortalità. In contesto cristiano, spicca la straordinaria definizione data da San Girolamo, che definì il tumore «una gravidanza del demonio»”, evidenziando la luciferina tendenza a sovvertire l’ordine naturale delle cose stabilito da Dio. Spesso sul piano socio-culturale le metafore del cancro hanno disegnato una malattia dell’incapacità di esprimersi e se chi ammala vede nella pena anche il boomerang della colpa, si percepirà come causa involontaria della malattia, potendo auto-convincersi di una qualche necessità del verdetto. La filosofa Susan Sontag, sosteneva che le metafore e i miti uccidono nel senso che rendono i pazienti timorosi delle cure senza una vera ragione. Sontag - celebre teorica statunitense della malattia razionale, anche lei malata di cancro - non riuscì a scendere a patti con il suo essere mortale ed alla fine si trovò dolorosamente a smentire la sua precedente, nitida consapevolezza. Per parlare della malattia di Mihajlovic ci si è nuovamente rivolti alle parole della guerra, con il malato che diventa un guerriero che scende in trincea per combattere. Le metafore belliche sono di gran moda nella lotta alle malattie e negli ospedali, vi sono “reparti” e “divisioni” come in un esercito, con la guerra senza quartiere che prevede un ferreo presidio sanitario. L’allestimento retorico dell’immagine del nemico è molto efficace per tenere alto il coinvolgimento psichico del paziente, tuttavia, l’approccio razionalizzante alla malattia - prodotto da una medicina che volendo a tutti i costi essere scienza, dimentica che un corpo non è riducibile all’organismo - spesso dimentica che se la malattia umana non è quella dell’animale, il male si produrrà all’interno di un senso (subìto o interrotto) e stabilire il perché di una malattia come il cancro, presupporrà la messa a fuoco del rapporto tra un individuo ed il proprio contesto di vita dentro un confronto - spesso impietoso - del soggetto con sé stesso, ricercato in uno sfumato orizzonte psicologico. Così, la delicata fase della comunicazione della diagnosi sancisce un passaggio di stato dell’individuo dalla condizione di “sano” (competenze sociali agite) a quella di “malato” (competenze specialistiche subite), dentro uno stringente itinerario terapeutico che varierà in base a diversi parametri. Nell’intreccio di sentimenti e pensieri contrastanti, sorgono spesso domande cui il malato non può dare risposta («perché a me?», «come potrò affrontare tutto questo?») e che rappresentano il tentativo di entrare in rapporto con qualcosa di incomprensibile. La medicina moderna ha capito che i significati simbolici conferiti all’esperienza oncologica devono essere compresi ad un livello molto profondo del rapporto dell’individuo con sé stesso ed a fare da contraltare al caso di Sinisa Mihalovic c’è stato quello di Nadia Toffa, in qualche modo sorprendente perché ha svelato la dimensione più ardua della malattia, quella che il teologo mons. Giuseppe Angelini definiva «un tempo per volere», in quanto proprio nella malattia si può rivelare in pienezza l’essere autentico di una persona, emendato da tutte le sue incrostazioni socio-attitudinali. Don Tullio Proserpio, cappellano dell’Istituto dei Tumori di Milano, ha dichiarato che la retorica del guerriero e dell’eroe che combatte la guerra senza paura sia in realtà un modo per esorcizzare qualcosa che ci intimorisce molto. Vivendo in una società che tende a nascondere la sofferenza, noi coltiviamo - soprattutto nello sport - il mito dell’uomo invincibile e ci illudiamo che si possa vivere senza dolore. Il caso Mihajlovic testimonia il contrario, con il tumultuoso tripudio degli stadi che diviene la rappresentazione corale di un sentimento sospeso tra il saperci soccombenti e la necessità collettiva di negare questa consapevolezza, continuando ad associare all’eroe ferito una certezza di vittoria. La malattia è un fatto umano, non qualcosa di estraneo da combattere e vincere e se i medici del futuro potranno ridere dei nostri primitivi cocktail di veleni concepiti per uccidere la più sofisticata malattia che la nostra specie conosca, diversi aspetti di questa vicenda resteranno immutati: la capacità di recupero si confronterà con l’implacabilità ed il passaggio dalla speranza alla disperazione, sarà mitigato dal fascino di soluzioni ritenute universali. Se resterà la delusione della sconfitta, vorrà dire che il mondo si sarà mantenuto umano.

*Sociologo della devianza e del mutamento sociale
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