Aperturisti e chiusuristi espressione della frammentazione sociale italiana

Aperturisti e chiusuristi espressione della frammentazione sociale italiana

di Rossano Buccioni
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Martedì 23 Febbraio 2021, 11:05

La guerra tra chi vorrebbe un nuovo lokdown totale e chi invece delle chiusure mirate, ripropone il tema della differente interpretazione dell’emergenza pandemica, di aperturisti contro chiusuristi che, testimoniando come la verità scientifica si accordi raramente con il senso comune, ripropongono l’eterno antagonismo tra istinto e ragione. Sentiamo spesso ripetere che dall’emergenza pandemica se ne esce insieme, ma subito dopo abbiamo contezza dell’imprescindibilità di logiche di bottega che vanificano in modo irridente la coerenza di chi rinuncia al proprio tornaconto immediato per il rispetto delle regole. Siamo dunque il Paese della rimozione, dove gli atteggiamenti difensivi dei cittadini, si sommano alle conseguenze negative della costruzione sociale del dissenso? Se è certamente vero che, nonostante la sfiducia nella politica e la corruzione, in Italia vi siano numerose eccellenze, la scarsa coesione del “sistema Paese” si declina nella capacità di reagire solo a problemi contingenti. Dalla difficoltà di una visione organizzativa strategica deriva un quadro sociale esogeno rispetto alle due categorie weberiane di etica, quella della buona intenzione e quella della “responsabilità” (nel senso di attenzione alle conseguenze derivanti dalle proprie azioni), ed in un Paese a moralità pubblica limitata, quando si dovrà scegliere in condizioni di emergenza, la mancata trasparenza e chiarezza delle informazioni diverrà sinistra misura del rispetto dello Stato per il cittadino. Sono mesi che siamo confrontati con un numero di morti impressionante che motiva una triste rimozione collettiva e che svuota la consapevolezza pubblica, ma invece di perseguire un cambiamento maturativo e responsabile, ricerchiamo piccoli adattamenti temporanei imposti dall’emergenza che stiamo vivendo, incapaci di disegnare le tappe di un nuovo equilibrio che dovrebbe fare da sfondo sociale all’auspicata rinascita del Paese. Tutti abbiamo fatto esperienza della stanchezza e dell’alto prezzo da pagare per mantenere inalterato il senso di auto-efficacia in una situazione di piena emergenza, però il bene comune “salute collettiva” sembra passare sempre in secondo piano. L’interpretazione dello scenario pandemico in termini di guerra contro un nemico sconosciuto che costringe a lottare per la sopravvivenza, è in continuità con i temi istituzionali che hanno identificato la pandemia con un’emergenza sanitaria da raccontare attraverso metafore altamente emozionali. Ma il Covid ha anche gettato sale sulle storiche ferite italiche, soprattutto quando ci siamo accorti che l’emergenza pandemica non cessava e che dovevamo non solo adattarci, ma cambiare in profondità. Cambiare significa ridiscutere le certezze che avevamo prima, l’auto-percezione sociale che cementava le nostre relazioni e promuoveva il nostro riconoscimento. “Nulla sarà come prima” è presto diventata espressione retorica perché per le persone è difficile confrontarsi realmente con la consapevolezza di ciò che accade.

La diffusone di responsabilità e la sottovalutazione delle conseguenze su terzi delle proprie decisioni, sono due elementi decisivi nella c.d. “società del rischio”. In un contesto dove una licenza in più diventa un pericolo in più - per chi rischiamo di contagiare ad es., dato che si tratta sempre di persone a noi vicine - assistiamo al ritorno di un paradossale “paternalismo liberale” per cui, se il divieto è calato dall’alto, incontra immediata quanto genuflessa osservanza che però – ove inutile ad interiorizzare lo spirito più autentico del rapporto valori/norme – si muterà nella solita pantomima di attori sociali smaliziati che, continuando a funzionare in ordine a divieti esterni senza mai assumere nessun atteggiamento adulto rispetto alle severe condizioni di esistenza, alla prima occasione revocheranno in dubbio ciò che un attimo prima sembrava granitica certezza. La tentazione di surrogare la responsabilità individuale con forme di orientamento dall’alto dei nostri stili di vita risponde alla pretesa conoscenza di un supposto bene comune superiore (del popolo) da parte della classe dirigente al potere che sembrerebbe aver corteggiato i mali italici, blandendo un “popolo bambino” ridotto a suddito con deterrenze subito accettate sotto la spada di Damocle pandemica e ritenuto adulto solo se chiamato a seguire le inerzie dell’atavica dualizzazione antagonistica della storia sociale italiana. Lo storico Federico Canaccini, lavorando sulla straordinaria fortuna del paradigma oppositivo “Guelfi/Ghibellini”, sostiene che la dualità contrastiva tipica della storia sociale italiana, rilanciata dalla ripresa Ottocentesca dei due termini, con il partito Neoguelfo (filopontifici) ed il movimento Neoghibellino (anticlericali), dilagherà nel ‘900 seguendo le trame politico-ideologiche ed ispirando un complesso quadro di frammentazione istituzionale. Tale frammentazione impone strategie compensative “all’italiana” ciò significando - allo stesso tempo - genialità e sotterfugio, brillanti improvvisazioni e meschini tradimenti, inganni derelitti e gesti di inusitato coraggio. Con grande enfasi, Orson Welles affermo che ”In Italia per trent’anni sotto i Borgia dominarono guerra, terrore e spargimenti di sangue ma brillarono Michelangelo, Leonardo da Vinci ed il Rinascimento. In Svizzera ebbero la fratellanza; ci sono stati 500 anni di democrazia e di pace, ma cosa hanno prodotto? L’orologio a cucù”. Quando comprenderemo le logiche intrinseche di regole decisionali ed azioni organizzative tipiche della “società-mondo”, noi italiani inizieremo ad interessarci anche alla storia sociale dell’orologio a cucù degli svizzeri.

*Sociologo della devianza e del mutamento sociale

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